I mass media martellano per normalizzare l’utero in affitto. L’ultimo spot apparso sulla carta stampata ha del clamoroso.
L’ultima novità è una mamma-nonna di 68 anni che afferma di aver realizzato il desiderio del figlio morto. Ma la realtà è ben differente.
Per sdoganarla al grande pubblico la chiamano «gravidanza solidale». Così titolava nei giorni scorsi La Stampa nel descrivere la pratica che il rozzo pueblo si ostina ancora a chiamare semplicemente «utero in affitto». È questa l’ultima frontiera dei «diritti distorti» che vengono promossi dai giornaloni mainstream per normalizzare quello che tanto normale non è.
L’ultimo spottone in ordine di tempo viene dalla Spagna dove, è notizia di questi giorni, sta facendo scalpore il caso di Ana Obregon, attrice e conduttrice spagnola di 68 anni, volata in Florida (Usa) per «ritirare» la nipote Ana Sandra, nata grazie all’affitto di un utero di una gestante. Un’altra donna ha fornito gli ovuli. Il seme invece appartiene al figlio dell’attrice: Aless Lecquio Garcia, morto a 27 anni a causa di un cancro.
Con un lungo post su Instagram e in copertina sulla rivista Hola! la donna ha spiegato che la bimba è nata in Florida dato che la legge spagnola vieta la pratica dell’utero in affitto. Legalmente, afferma l’attrice, la bimba è sua figlia, anche se biologicamente è sua nipote.
Utero in affitto: il desiderio che diventa diritto
E non è tutto: l’attrice, che cerca di giustificarsi affermando di non aver soddisfatto un capriccio ma «il desiderio e l’ultima volontà di mio figlio», non esclude che in futuro non possano essere «prodotti» altri bambini in questa maniera (il figlio, dice, voleva cinque bambini). Anche questo, per chi bazzica un po’ questi temi, è un grande classico: la giustificazione di pratiche immorali con il metodo del «caso pietoso». È la prima regola della propaganda: manipolare le emozioni. «Tocca il cuore, persuadi la mente».
Ana Obregon ha spiegato che la «produzione» della nipote on demand non è stata rapida. Ci sono voluti diversi tentativi, anche se non è noto quanti embrioni siano stati creati artificialmente e quanti siano stati sacrificati allo scopo.
Inutile dire che la vicenda sta facendo parecchio parlare di sé in Spagna, tanto che il rumore è arrivato anche da noi.
Quella realtà che non scompare
Parlavamo di «diritti distorti». È il titolo di un libro di qualche anno fa del giornalista Pier Giorgio Liverani, ex direttore di Avvenire e Sì alla vita, morto a settembre dell’anno scorso. Il sottotitolo del libro dice già tutto: la «legalizzazione dei desideri». Il punto è che il diritto non è una fabbrica per realizzare desideri più o meno allucinati. Il diritto non può fare a meno della realtà, a meno di non voler fare come quell’imperatore romano che fece eleggere senatore il proprio cavallo. E come ha detto una volta lo scrittore Philip K. Dick, «la realtà è quella cosa che, anche se si smette di credervi, non scompare».
Si potrà anche chiamare «maternità surrogata», «gravidanza solidale», «gestazione per altri» (meglio ancora il puro tecnicismo burocratico della sigla: Gpa), «surrogata altruistica» o in qualunque altro modo per farla apparire trendy, perfino nobile. Resta il fatto che affittare un utero per concepire una creatura mettendo assieme gli ovuli di un’altra donna e il seme di un uomo è una pratica aberrante. Perché il primo a essere privato dei diritti in nome dei desideri degli adulti è proprio il bambino. Che viene ridotto a un prodotto, il che non stupisce in un mondo dove la creatura umana, nei suoi primi stadi della vita intrauterina, viene definita «prodotto del concepimento» (del quale poi è facile sbarazzarsi in buona coscienza se «fallato» o «sgradito»).
Insomma: il bimbo non è più «qualcuno», ma un «qualcosa». Non è più un dono, ma un prodotto esito, appunto, di un fatto produttivo, meccanico, estraneo persino al rapporto tra un uomo e una donna. Tanto è vero che, per i fautori di queste pratiche degradanti, può avere benissimo una mamma-nonna. L’utero in affitto discende in linea diretta da questa mentalità che rende indifferentemente la persona una cosa «distruggibile» (con l’aborto) o «producibile» (con la fecondazione artificiale e l’utero in affitto stesso).
Da bimbo-dono a bimbo-cosa: una pratica che degrada la persona
Ma la realtà, come diceva Dick, è ostinata. La realtà non si congeda facilmente. E la realtà di questa pratica è che l’essere umano viene ridotto a una cosa, al risultato finale di una filiera produttiva. Con l’utero in affitto le persone si vedono ridurre a cose e a funzioni astratte. Il bambino si vede trasformare così in prodotto mentre la «funzione genitoriale» viene parcellizzata, come se ci trovassimo all’interno di una catena di montaggio, e spezzata in due fasi:
- concepimento, dove entrano in gioco la madre prestatrice dell’ovulo e il seme fornito dall’uomo (in questo caso un padre biologico defunto);
- gestazione, dove invece la «palla» passa alla madre gestatoria, ovvero colei che porta in grembo il bambino-prodotto.
Senza contare, a completare l’edificante quadretto, che durante il processo «produttivo» vengono impiegate tecniche che richiedono la «fabbricazione» di embrioni che saranno poi «scartati» per motivi eugenetici. Infatti solo i più «promettenti» avranno speranza di essere impiantati nel grembo della madre surrogata.
E se la surrogata è «altruistica»?
Che questo processo sia a pagamento (e qualcuno dovrà pur pagare il ricorso a tecniche e competenze altamente specializzate, per non parlare dei «prestatori d’opera») o meno, poco cambia. Il preteso «altruismo» di alcune di queste gravidanze per procura non cambia i termini della questione. Non si è mai vista infatti una «solidarietà» fatta a spese dei più deboli (e quando si è vista, era appunto una falsa solidarietà).
Nessuna mistica della «gravidanza solidale» può cancellare il fatto che è la dinamica stessa dell’utero in affitto a essere degradante per la persona umana, radicalmente «cosificata». Mai come in questo caso la mistica mistifica. Sventurato il mondo che non sa distinguere la generazione di una creatura dalla fabbricazione di uno smartphone…
Nel caso in questione, comunque, la rivista Lecturas riferisce che l’attrice avrebbe pagato circa 170.000 euro per avere la bambina, di cui 35.000 sarebbero andati alla madre surrogata, una donna di origine cubana che ha già due figli suoi. Sempre secondo Lecturas non sarebbe la prima volta che si presta come madre surrogata. Per motivi esclusivamente economici.
Niente male come business.
La realtà è questa. E tale rimane, malgrado lo scintillio delle riviste patinate e la propaganda martellante dei giornaloni che vogliono «rieducare» el pueblo.