Per una teologia rinnovata
C’è urgenza di un rinnovamento teologico complessivo e un monaco benedettino ce ne indica la strada.
Il grande cardinal Caffarra affermò, poco prima di morire, che solo un cieco potrebbe non accorgersi che la Chiesa viva oggi una grande crisi. E se non fosse una crisi di fondo, essa non potrebbe dirsi grande. Il senso dunque dell’affermazione del teologo va letta in senso estensivo e direi anche intensivo: oggi si assiste ad una delle crisi più immani che abbiano mai scosso la cattolicità, una crisi così profonda che parrebbe scuotere il messaggio di Cristo e l’intera opera della Redenzione sin dalle fondamenta.
Ovviamente, lungi da noi la descrizione manichea della realtà secondo la quale in passato tutto andava bene e oggi saremmo sull’orlo dell’abisso, in fervida attesa dell’apocalisse prossima ventura. No.
Ciò detto, il fumo di Satana invocato da Paolo VI, l’apostasia silenziosa denunciata da Giovanni Paolo II e l’autodemolizione della Chiesa descritta da Benedetto XVI sono arrivati, congiuntamente, a livelli spaventevoli e mostruosi.
Tutti i buoni cattolici perciò, a volte quasi senza accorgersene, desiderano una riforma, un rinnovamento, una restaurazione e perfino una nuova santa crociata per colpire gli errori di dottrina, per liberare le anime dagli inganni, per allontanare i falsi pastori dal gregge e per ralluminare la spenta fiaccola del cattolicesimo, ridotta a scintille, a brandelli, ad isole e isolotti che rischiano di non essere sommersi dalle tempeste della storia.
Così il benedettino di Farfa padre Lapponi ha messo a tema del suo ultimo saggio proprio il doveroso e improcrastinabile rinnovamento del pensiero teologico e spirituale, in modo da recuperare ciò che è eterno più che antico, e lasciar perire ciò che è stato erroneo e improduttivo più che moderno e recente (cf. Massimo Lapponi, Per una teologia rinnovata, Edizioni Sant’Antonio, 2018).
“Non c’è dubbio che sia diffusa negli animi pressoché di tutti, e in modo particolare dei credenti, un’insoddisfazione e un’ansietà dovute non soltanto agli avvenimenti e alle tensioni presenti oggi nel mondo, ma anche alla mancanza di una visione di fede che risponda in modo adeguato alle aspettative, alle domande e alle angosce del nostro tempo” (p. 15).
Il benedettino propone anzitutto una revisione storiografica, che citando i lavori di Augusto del Noce, tenda a superare la lettura, sia laica sia cattolica, dell’epoca moderna come epoca di assoluta secolarizzazione, contro cui contrapporre l’aureo Medioevo. Secondo padre Massimo, “sarebbe necessario, per un rinnovamento del pensiero cattolico, che Del Noce trovasse un posto ufficiale nei curricula filosofico-teologici delle università pontificie” (p. 36). E per la stima che abbiamo verso il grande italiano, la cosa non ci dispiacerebbe affatto. Ci sembra però stano, che secondo il pregiato Autore, si metterebbe oggi da parte Del Noce, per “ritornare ad un nuovo e più deleterio medievalismo” (p. 36).
Non vediamo nessun medievalismo in giro: magari si tornasse a stimare lo spirito francescano autentico (povertà stretta, penitenza forte, castità piena); magari si tornassero a leggere le opere dei dottori medievali, come l’Aquinate, ma anche Bonaventura, Alberto Magno e mille altri minori, anche nel mondo femminile (cf. Elisabetta di Schònau, Il Libro delle Visioni, Lindau, 2018). Magari si cercasse di ispirarsi all’arte gotica nella costruzione delle nuove chiese, spesse volte in nulla dissimili da garage o sale da ballo.
Del Noce è messo da parte dalle élite ecclesiali o laiche in quanto ritenuto conservatore, e a lui è contrapposta la nouvelle théologie dei nuovi profeti, sia ‘cattolici’ (De Lubac, Rahner, Forte & company) che laici (Kant, Hegel, Heidegger, Vattimo, etc.) e non certo l’odiatissimo Medioevo. Semmai si pretende di effettuare un ‘ressourcement’ verso la patristica, ma troppo scoperto ne è il motivo. I padri, interpretati alla luce dei presunti segni dei tempi contemporanei, vengono strumentalizzati per far dir loro, ciò che in realtà mai dissero.
E si arriva al punto di usare i loro limiti, l’apocatastasi di alcuni, la scarsa mariologia di altri, la poca precisione terminologica, la critica accentuata alla sfera politica in altri ancora, come scusa per giustificare i propri errori dottrinali, condannati magari a Trento (sui sacramenti e l’al di là per esempio) o nel Vaticano I (su infallibilità e primato) o nel Catechismo del 1997 (sulle questioni bioetiche).
Secondo padre Lapponi l’interpretazione tradizionale di Cartesio come “la pecora nera della storia della filosofia” (p. 38) è da superare, notando con Del Noce che esiste un’altra strada della filosofia moderna, meno battuta, che conduce da Cartesio a Rosmini, fino a Malebranche e Gratry (cf. pp. 39-40). Il cartesianesimo non sarebbe una forma di soggettivismo, ma il tentativo di “eliminare ogni forma di panteismo e di riaffermare l’assoluta trascendenza di Dio” (p. 40).
Nella nostra piccolezza intellettuale non siamo in grado di valutare e soppesare pienamente questa e altre tesi innovative del saggio. Ma siamo convinti che il saggio sia certamente apprezzabile per due motivi di fondo.
Un sacerdote, un teologo, un monaco non solo vede benissimo i problemi che attanagliano la cattolicità, ma li descrive senza infingimenti e falsa prudenza. Cosa non frequentissima.
E secondariamente, propone delle percorribili vie di uscita per recuperare il terreno perduto e trovare nuovi canali di evangelizzazione. Ma questi nuovi canali debbono partire dalla costatazione che “il movimento divino del nostro tempo è l’aspirazione a rendere presente nella realtà (…) il mistero dell’Incarnazione di Dio nel mondo” (p. 133).
Alla luce di questa nuova forma di cristocentrismo, secondo padre Massimo, perfino la “politica e la scienza, devono comprendere che ogni programma di rinnovamento sociale non può prescindere dalla conversione spirituale e morale degli uomini” (p. 136).
Antonio Fiori