Spesso si pensa che persone di successo, nello spettacolo o nello sport, non debbano avere fede. La storia di Abel Balbo dimostra che non è così.
Abel Balbo è un ex calciatore con un’ampia parentesi nel campionato italiano, prima con l’Udinese e poi con la Roma, per passare infine alla Fiorentina.
Un calciatore di razza, di quelli tutto grinta, corsa e sudore, che non lasciano mai andare un pallone. Quelli che, come cantava Luciano Ligabue, “sono sempre lì, lì nel mezzo”. Il suo era un talento sopraffino, di quei grandi campioni che oltre all’impegno hanno anche tecnica, sanno come “addomesticare” il pallone.
Un’amore, quello per il calcio, dettato però da una scelta di vita radicata in un amore ben più grande. Quello cioè per il Signore. Abel Balbo infatti, calciatore argentino, ha sempre vissuto un rapporto intenso e schietto con Gesù. Per lui la domenica non era la giornata della partita ma della Messa.
Frequentatore abituale dei pellegrinaggi a Medjugorje, con la Bibbia sempre nel borsone vicina a scarpe e ricambi, ai tempi di Giovanni Paolo II organizzò insieme al suo amico, anche lui grande campione argentino, Gabriel Omar Batistuta, incontri di approfondimento per i giocatori con la Santa Sede.
L’incontro più importante per Balbo non era quello con i compagni di squadra, oppure con gli avversari, sul campo. Ma era quello con il Signore in parrocchia, nell’Eucarestia, e infine con gli amici in oratorio. Dove, a quel punto, si tiravano i calci al pallone. E che calci.
Gli stessi che, giorno dopo giorno, lo hanno fatto diventare un grande campione di serie A. Consapevole però che lo sport resta pur sempre gioco di uomini che sono figli di Dio. E le partite una prova con sé stesso e con gli avversari, ma in cui ogni goal era da dedicare all’obiettivo ultimo della vita eterna.
Tutto questo lo si vedeva dalla sua “esultanza“, ogni volta che la palla andava in rete, con il dito puntato verso il cielo. Una dedica gestuale che diventava un rito laico per i tifosi ma anche un incontro costante e sincero con il Signore nel momento di gioia maggiore della propria vita, quello in cui si raggiunge un obiettivo.
Dalle radici infatti si vedono i frutti, e quelle del calciatore argentino Balbo erano ben piantate nella vigna del Signore, che guidò la sua esperienza di vita virtuosa, nello sport e fuori dal campo sportivo. Nel suo piccolo paesino argentino Balbo crebbe e conobbe i veri valori della vita.
Che non sono quelli del successo e della ricchezza, ma quelli dell’impegno e dell’altruismo. Dell’amore per il prossimo e della gratitudine per il Creatore che dona all’uomo tutto ciò di cui l’uomo dispone, fin dalla nascita.
Valori che però purtroppo oggi pare vengano sempre più condannati. Ad esempio, è sempre più difficile vedere calciatori con il dito alzato al cielo dopo un goal, mentre è sempre più facile ascoltare storie di dannazione notturna, di nottate di sballo e di perdizione in cui gli stessi calciatori, strapagati fior di milioni, possono permettersi di sperperarli come e dove gli passa per la testa.
Una società in cui la semplicità dei valori e della vita viene sempre più sostituita con la complessità e l’esibizione esteriore cercata a tutti i costi, a discapito degli altri, per imporsi e sentirsi migliori.
Già lo stesso Balbo, durante la sua carriera, aveva notato con dispiacere che molti dei suoi colleghi calciatori si facessero il segno della croce prima di entrare in campo ma solo per scaramanzia. E non per una fede viva e pulsante che chiede di ricordare il Signore in ogni gesto e in qualsiasi momento.
La sua abitudine era al contrario quella di recitare la preghiera del Lavoratore, che gli avevano insegnato i suoi genitori quando era piccolino. Perché con quella preghiera si può santificare il lavoro quotidiano, e riempirlo di Dio, dopo averlo svuotato di ogni valore mondano e superfluo.
La stessa che, ha confessato lo stesso Balbo, recita anche ora prima di andare in televisione, magari per una radiocronaca o per un commento sportivo. Si prega infatti non per vincere ma per avere sempre il Signore vicino a sé.
Una fede testimoniata al punto da coinvolgere anche tutti i suoi compagni. Un aneddoto che racconta infatti molto più di mille parole è legato al campione Abel Balbo, che spesso era deriso nel mondo del calcio per la sua fede. Lui però imperterrito, da guerriero, continuava ad andare per la sua strada.
Ogni sabato sera, prima della partita, si recava a Messa. Racconta di non avere fatto nulla, di non avere detto niente a nessuno. Soltanto che una sera, a un certo punto, due suoi compagni di squadra gli chiesero di andare con lui. “Ben felice!”, fu la risposta di Balbo.
Tanto che alla fine, dopo alcune settimane, tutta la squadra il sabato era nella cappellina.
Giovanni Bernardi
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