La forte testimonianza di padre Scalese, ultimo religioso italiano che lascia Kabul, fa luce sulla drammatica situazione afghana.
Padre Giovanni Scalese, barnabita, era rimasto l’ultimo prete in Afghanistan, e ieri è riuscito a rientrare a Roma, grazie al ponte aereo italiano. Insieme a lui vi erano anche 5 suore Missionarie della Carità e 14 bambini disabili, che loro stessi hanno accudito a Kabul. Il sacerdote è il superiore della missione cattolica Missio sui iuris dell’Afghanistan istituita da Giovanni Paolo II nel 2002 e la sua preziosa testimonianza è stata raccolta dall’agenzia giornalistica dei vescovi Sir.
Attimi e giorni di grande preoccupazione prima di partire
“Solo il primo giorno, tra il 15 e il 16 agosto, quando non si sapeva che cosa potesse succedere, ho provato un po’ di preoccupazione. Ma già dal giorno dopo, stando dentro l’ambasciata, ero tranquillo”, ha raccontato. “Fuori i cancelli della nostra rappresentanza diplomatica c’erano i talebani che se avessero voluto farci del male avrebbero potuto“.
Il religioso ha spiegato che più che altro era preoccupato per le suore della Carità, “che invece erano rimaste nelle loro case ed erano quindi più esposte ed impaurite“. “In tutto questo tempo che siamo rimasti a Kabul in attesa di imbarcarci non ci siamo mai sentiti soli, sia la Chiesa – ero in continuo contatto con la Segreteria di Stato – sia le Istituzioni italiane, infatti, ci sono state vicino”, ha spiegato.
Il sostegno del Papa e la preghiera che continua per l’Afghanistan
Anche papa Francesco non ha mai fatto venire meno la sua presenza e il suo appoggio. “Il Papa era interessato alla vicenda e la seguiva. Continuiamo a pregare per l’Afghanistan. Non abbandoniamo questo Paese e il suo popolo sofferente”.
I giorni che padre Giovanni ha trascorso all’interno dell’ambasciata, in attesa di potersi imbarcare su un volo per l’Italia, sono stati certamente duri. “Sono un po’ confuso per il viaggio e la tensione patita in questo periodo. Riuscire a partire non è stato facile“, spiega.
La difficoltà di avvicinarsi all’aeroporto raccontata dalle immagini
“Avvicinarsi allo scalo della capitale era molto pericoloso. Per rendersene conto basta guardare le immagini televisive che arrivano dall’aeroporto di Kabul. Un giorno eravamo arrivati a soli 50 metri dall’ingresso salvo poi restare bloccati oltre un’ora, prima di tornare indietro perché la situazione stava degenerando. Siamo riusciti a varcare l’ingresso solo l’altra sera. Non è stato facile transitare in mezzo a tanta gente e all’enorme tensione”.
In quei momenti infatti i talebani spiegavano attraverso comunicati che avevano intenzione di chiudere tutte le strade per l’aeroporto agli afghani, consentendo il passaggio solo agli stranieri. Per questa ragione, appena il sacerdote è arrivato è stato imbarcato su un volo militare che dopo uno scalo in Kuwait è giunto a Roma.
“Nessuno si aspettava una conclusione così improvvisa”
Il sacerdote ha infatti spiegato che a Kabul la situazione appare tranquilla, ma che allo stesso tempo i veri problemi sono in aeroporto. Una spiegazione a tutto ciò, però, per il religioso è molto difficile da dare.
“Nessuno si aspettava una conclusione così improvvisa, repentina. Tutti speravamo in un epilogo più negoziato. Si pensava, infatti, che le Istituzioni e il Governo locali, le Forze della Nato che pure si stavano ritirando, l’esercito regolare afghano potessero avere ben altra consistenza e che i talebani dovessero in qualche modo negoziare per trovare un compromesso volto alla formazione di un Governo di transizione o di unità nazionale. Ma non era nemmeno da escludere il rischio di una guerra civile”.
Nel giro di pochi giorni è crollato tutto, ora si parla di nessuna vendetta
Di fronte a queste considerazioni, è bastato poco affinché accadesse il dramma. “Nel giro di pochi giorni è crollato tutto: Governo, esercito, forze di polizia. I talebani non hanno praticamente combattuto per prendere il potere, se lo sono ritrovato in mano. E in fondo è andata bene così perché si è evitato un enorme bagno di sangue. Ci sono stati morti ma non è una guerra civile”.
Molti dei civili che hanno lavorato o collaborato con le Forze della Nato hanno già lasciato il Paese, ha spiegato il religioso, mentre i talebani hanno assicurato che “non ci saranno vendette o ritorsioni, anche se credo che tutto sia possibile“, commenta.
L’idea di dialogare con i talebani e l’invito del prete a un po’ di realismo
“I talebani devono pensare a riportare un po’ di ordine pubblico e pace e non so se siano pronti e in grado di farlo. Qui si tratta di ricostruire uno Stato che si è dissolto. E con quali forze possono farlo? Chi sta lasciando il Paese in questi giorni è gente che ha un buon livello di istruzione, preparata. La loro partenza è un impoverimento per l’Afghanistan. Spero che il nuovo regime talebano rispetti quanto dichiarato in questi giorni: nessuna vendetta”.
Ciò che emerge è che quindi solo con queste premesse sarà possibile quel “dialogo” con i talebani che in questi giorni si sta provando a sbandierare da più parti. Per padre Scalese, al contrario, c’è bisogno di “un po’ di realismo”.
Sette lunghi anni vissuti in Afghanistan tra attentati e il ritorno frettoloso
“Provare ad allacciare un dialogo perché bisogna essere realisti. Non si possono assumere posizioni intransigenti e di principio in questa fase. Serve dialogare per cercare di ottenere determinati risultati. Una chiusura totale a cosa potrebbe servire, a cosa potrebbe portare? E soprattutto che ne farebbe le spese? Il popolo afghano, nessun altro”.
Il religioso ha vissuto sette lunghi anni in Afghanistan prima di compiere questo frettoloso ritorno. Un tempo che ha rivelato essere molto difficile, in particolare per il rischio alto di attentati – “ne ricordo di devastanti” – ma allo stesso tempo non è di certo tutto questo che blocca il religioso.
“Se ci fossero le condizioni per un ritorno, non avrei problemi a tornare”
“Se ci fossero le condizioni per un ritorno, non avrei problemi a tornare”, rivela. “Ma non dipende da me. Se la Santa Sede ritiene che ci siano le condizioni per riprendere la missione, perché no? Ufficialmente in Afghanistan non ci sono cristiani locali. Nel Paese, infatti, l’Islam è riconosciuto come religione di Stato e la conversione ad altre religioni è inquadrabile con il reato di apostasia”.
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In tutto ciò, “la missione cattolica sin dal suo inizio non ha mai battezzato nessun afghano perché è negli accordi stipulati sin dalle origini. La nostra presenza è esclusivamente al servizio dei cattolici non afghani, stranieri. Le suore missionarie della Carità lavorano con gli afghani in modo del tutto disinteressato al servizio degli ultimi e non fanno opera di proselitismo. Non ci interessa la politica ma servire il popolo afghano”.
Giovanni Bernardi