Ecco un’altra storia che dimostra quanto le donne abbiamo bisogno di leggi e interventi, che tutelino la loro libertà di espressione e garantiscano pari dignità e diritti.
Amira si era sposata all’età di 20 anni con un connazionale. Da uno dei Paesi del Maghreb si erano, poi, trasferiti in Italia, una terra con una cultura molto diversa dalla loro.
Paradossalmente, fu proprio qui che, per Amira, cominciò un vero e proprio inferno.
Il marito la segregò in una stanza buia, in cui lei sentiva di poter aspettare solo la morte, per i mesi e gli anni che si susseguirono.
Era sempre coperta dalla testa ai piedi, anche quando dormiva. Il marito le diceva di essere compiaciuto per quel suo comportamento, poiché, se fosse morta nel sonno, l’avrebbero rinvenuta dignitosamente pronta!
Ma lui, mano a mano, cambiò in peggio: divenne severo e violento; cominciò ad avanzare la pretesa di avere altre mogli; le impediva di chiamare la famiglia o le amiche; non voleva assolutamente che andasse dal medico, anche in caso di necessità stretta.
In poche parole -come accade per molti estremisti islamici– interpretava il Corano a suo piacimento.
Amira subì, così, innumerevoli violenze fisiche, oltre a quelle psicologiche, dal suo stesso consorte. Un giorno, senza avvisarlo (in effetti, lo aveva cercato, senza trovarlo) andò dal medico e, al suo ritorno, fu picchiata a morte, per avergli disobbedito.
Le percosse continuarono senza pietà, finché il marito (come pilotato da una forza esterna) si ricordò che era l’ora della preghiera. La lasciò a terrà sanguinante e si recò in Moschea.
Fu allora che Amira trovò la forza e il modo di uscire e chiedere aiuto. Venne soccorsa, portata in ospedale e operata alla testa.
Amira, dunque, coraggiosamente denunciò il marito e chiese il divorzio.
Ma nemmeno quello le assicurò protezione o giustizia, poiché il marito è stato, poi, condannato per lesioni personali, ma assolto per maltrattamenti. Agli occhi della legge, Amira era cosciente di ciò che poteva succedere.
Il giudice sentenziò: “Tuttavia, con riguardo a condotte culturalmente orientate, quali quelle attinenti la gestione dei rapporti interpersonali nell’ambito di una coppia coniugale, non pare potersi escludere che, prima di affrancarsi dal marito e prendere consapevolezza dei propri diritti e della possibilità di scegliere di vivere secondo i modelli occidentali (…), accettasse volontariamente una condizione di vita, che comprendeva privazioni e limitazioni (nel mostrare parti del proprio corpo o comunque di presentarsi ad uomini estranei nell’ambito familiare), in adesione alla sua cultura di origine”.
Ma Amira, o qualunque altra donna maltrattata, avrebbe dovuto, quindi, conoscere la misura della violenza cui sarebbe stata esposta e che avrebbe subito dall’uomo, che aveva promesso di amarla e di voler passare con lei il resto della sua vita?
Amira ha sottolineato più volte, che, nel Corano, non ci sono passi che incitano ad alzare le mani sulle donne e che tutta quella violenza è, dunque, frutto di uomini “fuori di testa”.
Ora lei, a causa della separazione, è considerata esclusa anche dalla comunità islamica di cui faceva parte, che l’ha ripudiata, considerandola alla stregua di una prostituta.
Ma lei, finalmente, si è resa consapevole di ciò che vuole fare della sua vita.
Ha rinunciato al velo per sempre ed ha trovato un lavoro: “Ho lottato per avere la mia libertà, (…) sto nel giardino e l’aria mi tocca e dico: grazie Dio, io respiro! E grazie all’Italia che mi ha offerto la libertà”.
Antonella Sanicanti