Oggi la diocesi di Roma celebrerà l’entrata nell’Ordo Virginum di cinque donne, testimonianza di una fede viva e autentica che supera anche le sbarre del carcere.
A presiedere il rito nella Basilica di San Giovanni in Laterano, il cardinale vicario Angelo De Donatis. Il rito di consacrazione delle vergini è un rito antichissimo, che nasce nei primi secoli della Chiesa, che tuttavia era caduto in disuso per secoli. È stato il Concilio Vaticano II ad auspicarne il ripristino.
Vivere da vergine consacrata all’interno della normale quotidianità
La consacrazione nell’Ordo virginum è la scelta di vivere per tutta la vita la verginità “per il regno dei cieli”, in un contesto di vita quotidiano però in tutto e per tutto simile a quello in cui vive la maggior parte delle persone. Questo segna la differenza dalla scelta, ad esempio, di diventare suora.
La vergine consacrata non ha infatti connotati esteriori che la caratterizzino. Non esiste un Istituto o delle Costituzioni, un abito che la distingua. Non c’è nemmeno un obbligo alla vita comunitaria o un carisma uguale per tutte a cui fare riferimento. La vergine consacrata non ha nemmeno superiori. Il suo unico riferimento ecclesiale è il proprio vescovo, ed è infatti lui che impartisce pubblicamente la consacrazione.
La testimonianza antica e moderna dell’Ordo Virginum
Quella dell’Ordo Virginum è una testimonianza che lega nel profondo antichità e modernità, e mostra che vivere la Parola di Cristo fino in fondo anche nella società di oggi è non solo possibile, ma anche meraviglioso. Come fa notare Chiara D’Onofrio, una giovane delle cinque che entreranno nell’ordine.
Ai microfoni dei media vaticani, Chiara, volontaria nella Casa Circondariale femminile di Rebibbia, ha spiegato che di fronte al male e ai crimini non esiste solo il carcere. Esiste al contrario anche una giustizia riparativa, e delle pene alternative che possono essere applicate per fare sì che la vera giustizia incontri anche la misericordia del Signore già in questa vita.
La vocazione di Chiara di fronte alla sofferenza degli ultimi
Chiara ha infatti deciso di accompagnare le ragazze del Carcere femminile di Rebibbia nel loro periodo di detenzione e di aiutarle nel processo, spesso duro, ostile faticoso, di reinserimento nella società. Un processo che deve scontrarsi con tanti pregiudizi esterne e tante sofferenze interne, ma che accompagnate dalla consapevolezza del male compiuto riconoscono la missione di fare qualcosa di buono per la società, discolpandosi di fronte agli altri dei propri errori.
Chiara racconta che la sua vocazione è nata ad Haiti, nel 2010, in un tempo di terremoto e criminalità dilagante. In risposta al sisma, infatti, e a tutto il male che aveva portato, ogni giorno cresceva il male e la miseria, con cui Chiara è venuta in contatto. Quegli anni le hanno permesso di capire cosa significa vivere in un simile contesto.
Operare in carcere non è fare volontariato ma vivere una missione
Vivendo con i frati minori, ha incontrato due ragazze detenute. Da lì è nata l’intenzione di intraprendere questo cammino. In quei momenti, Chiara ha toccato con mano “le meraviglie delle opere di Dio, toccando con mano come il Signore ama i suoi figli e vuole che nessuno dei suoi, anche il più piccolo, si perda”, ha raccontato. “Inoltre ho assistito alla conversione autentica, al desiderio delle donne detenute di cambiare vita”.
La giovane ha infatti spiegato che per lei andare in carcere non è solamente un servizio, una sorta di prestazione assistenziale. Né tantomeno è come fare beneficienza. Al contrario, visitare i carcerati significa vivere una missione, quella della carità che si dedica anima e corpo al prossimo, amandolo come sé stessa e cosciente che è ciò a cui Dio ci chiama.
Lo stupore di Chiara una volta varcato il grigio muro del carcere
“La cosa che più mi ha stupito, una volta varcato il muro, è aver trovato persone proprio come me“, ha infatti spiegato la giovane neo-consacrata. “Donne con la consapevolezza della loro debolezza e della loro fragilità e, per questo, ancora più umili. Tutte con un minino comun denominatore: la voglia di riscatto e di riannodare i fili di una vita segnata, per lo più, dai contesti di provenienza”.
Di fronte alla rabbia che molto spesso sale dai giovani ma in maniera del tutto ideologica, Chiara invita a fare l’esatto opposto. A porre cioè uno sguardo di simpatia e amore verso chi ha compiuto errori e anche verso chi lavora nelle carceri. L’appello di Chiara è a vivere, nel carcere, un’esperienza di vera solidarietà e amore per gli ultimi.
“Chi ha vissuto la la misericordia di Dio non può tenerla per sé”
“Chiunque ha vissuto appieno la misericordia di Dio, non può tenerla per sé. E in carcere c’è tanta gente che non sa di essere amata dal Signore e dai fratelli. La prima volta che sono entrata lì dentro avevo una gran paura: i corridoi, le sbarre, i sotterranei e le inferriate mi terrorizzavano.
Tutto poi è svanito dopo l’incontro con loro. Avevano inciampato, erano cadute e chiedevano una mano per rialzarsi. Devo ammettere, che grazie a questo, ho imparato molto”.
Giovanni Bernardi
Fonte: vatican news