Aung San Suu Kyi rischia davvero tanto, addirittura un processo davanti alla Corte Penale Internazionale.
Lei che, nel Myanmar, difende da anni i diritti del popolo, oppresso da un governo dittatoriale e militare, essendo a capo del movimento della non violenza, potrebbe essere accusata di “genocidio intenzionale”.
Sono le Nazioni Unite ad accusare le autorità del Paese asiatico e a ribadire la colpevolezza di alcuni militari per i “crimini contro l’umanità” e i “crimini di guerra”, dopo la strage di qualche mese fa, perpetuata ai danni della minoranza musulmana dei Rohingya.
La storia dice che, nell’Agosto del 2017, furono i Rohingya ad attaccare la Polizia di Stato, che finì con lo spargere il sangue di 7mila membri dei rivoltosi, tra indicibili violenze e torture.
“I principali generali birmani, tra cui il comandante in capo Min Aung Hlaing, devono essere indagati e perseguiti per genocidio nel nord dello Stato di Rakhine, come pure per crimini contro l’umanità e crimini di guerra negli Stati di Rakhine, Kachin e Shan”; “I bambini sono stati uccisi davanti ai propri genitori e le ragazze hanno subito violenza sessuale. Di circa 500.000 bambini Rohingya in Bangladesh, molti sono fuggiti da soli, dopo che i loro genitori sono stati uccisi o dopo essere stati separati dalle loro famiglie. La missione conoscitiva ha raccolto le testimonianze di molti bambini con ferite visibili che raccontavano di sparatorie, pugnalate o bruciature”, dice il rapporto dell’Onu.
Ma cosa c’entra Aung San Suu Kyi, insignita del premio Nobel per la Pace nel 1991, con tutte queste morti e con tanti soprusi?
Si legge ancora nel rapporto, “non ha usato la sua posizione di capo del governo de facto, né la sua autorità morale, per contrastare o impedire gli eventi nello stato di Rakhine. Con le loro azioni e le loro omissioni, le autorità civili hanno contribuito alla commissione di atroci crimini”.
Antonella Sanicanti