Lo scorso 5 settembre a Roma si è tenuto per volontà dell’Associazione Italiana Santa Cecilia un convegno dei compositori di musica sacra. La bella iniziativa è stata organizzata in occasione del centenario della nascita di Domenico Bartolucci, compositore e direttore musicale che nel 1956 fu nominato da Pio XII “Direttore perpetuo” della Cappella Sistina, ruolo da quale fu destituito solo nel 1997 da Giovanni Paolo II, e che nel 2010 fu elevato al ruolo di Cardinale da Benedetto XVI prima di morire nel 2013.
Durante il convegno sono emerse delle dure critiche riguardanti l’evoluzione dei canti sacri durante le cerimonie. Secondo i compositori, infatti, è stato tradito l’intento di Bartolucci di far rivivere all’interno della musica sacra la parola di Dio. A porre l’accento su questa involuzione della musica sacra è Don Tarcisio Cola, presidente dell’Associazione Italiana Santa Cecilia, il quale non va tanto per il sottile quando dice: “Mancano anche i poeti, gli autori. Vengono pubblicati da case editrici cattoliche dei testi che andrebbero bene per Sanremo, dove si parla indistintamente di amore o di lontananza da lui, da lei, senza alcun riferimento al sacro”, ricordando ai presenti come nel 1903 Pio X volesse creare un genere sacro che fosse riconoscibile dai propri stilemi (all’epoca musica sacra e lirica erano praticamente identiche) e come dopo il Concilio Vaticano II questa intenzione, già in parte accantonata, naufragò del tutto.
Le parole di don Cola hanno trovato il consenso di molti dei presenti, ad esempio Monsignor Valentino Miserachs Grau, direttore della cappella di Santa Maria Maggiore a Roma, dice: “Nelle funzioni dilaga un atteggiamento populista. Ma cantare la liturgia non significa allietare una riunione di amici, come purtroppo è all’ordine del giorno. La musica sacra deve possedere tre caratteristiche: essere santa, essere arte vera, essere universale. Nel nostro terreno sono cresciute le erbacce”. Dello stesso avviso anche Michele Manganelli, direttore della Cappela Musicale di Santa Maria del Fiore a Firenze, che alle critiche già fatte aggiunge quella che secondo lui è l’origine del problema: “I primi che non sanno quello che vogliono sono i liturgisti, i parroci, i vescovi. Non sanno quello che si deve fare e non cantano. Pigiano i tasti dell’’animatore liturgico’ e trasmettono delle musiche registrate, ma se il celebrante non canta, non canta neppure l’assembla e il rito è dimezzato. Inoltre, non c’è alcuna committenza: oggi il compositore di musica sacra fa la fame”.
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