Se il Battesimo viene dato con formule arbitrariamente modificate non è valido.
Lo ha affermato la Congregazione per la Dottrina della Fede in risposta a due quesiti riguardanti un Battesimo amministrato con la formula “A nome del papà e della mamma, del padrino e della madrina, dei nonni, dei familiari, degli amici, a nome della comunità noi ti battezziamo nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo”.
Quanti si trovano ad avere ricevuto un battesimo in questo modo devono essere battezzati “in forma assoluta”. Vale a dire che devono ripetere il rito battesimale utilizzando le norme liturgiche stabilite dalla Chiesa. Una regola di assoluto buonsenso che però evidentemente deve essere sfuggita a quanti hanno preferito utilizzare formule “ulteriori”, creative, insomma assolutamente inaccettabili.
Voler sostituire il proprio nome a quello del Signore non può essere accettato in alcun modo nel momento del Battesimo. Il Signore pone la sua mano sulla persona battezzata introducendolo alla vita nello Spirito, “vitae spiritualis ianua”. “Mediante il Battesimo siamo liberati dal peccato e rigenerati come figli di Dio, diventiamo membra di Cristo; siamo incorporati alla Chiesa e resi partecipi della sua missione”, scrive il catechismo della Chiesa cattolica.
Volersi sostituire al Signore è un atto di empia arroganza. Ribadito da Papa Francesco nel giugno scorso, e ora pubblicato. Il Dicastero infatti, nella dottrinale esplicativa, mette in luce che “la deliberata modifica della formula sacramentale” fu introdotta “per sottolineare il valore comunitario del Battesimo”.
Oltre a ciò, “per esprimere la partecipazione della famiglia e dei presenti e per evitare l’idea della concentrazione di un potere sacrale nel sacerdote a discapito dei genitori e della comunità, che la formula presente nel Rituale Romano veicolerebbe”. Ma “quando uno battezza è Cristo stesso che battezza”. In quanto è Gesù Cristo “il protagonista dell’evento che si celebra”.
Per questa semplice ma fondante ragione “i genitori, i padrini e l’intera comunità sono chiamati a svolgere un ruolo attivo, un vero e proprio ufficio liturgico”. Ma non di più. Per questo non è accettabile che si voglia anteporre la propria persona al corretto svolgimento del Battesimo.
Spiega la costituzione Sacrosanctum Concilium: “Ciascuno, ministro o fedele, svolgendo il proprio ufficio, compia soltanto e tutto quello che, secondo la natura del rito e le norme liturgiche, è di sua competenza”. La tentazione di “sostituire la formula consegnata dalla Tradizione” perciò “riaffiora”, e non senza “discutibili motivazioni di ordine pastorale”.
Ma soprattutto, l’aspetto più preoccupante di tutta la vicenda, che maschera una deriva nientemeno che nichilista, è un’altro. “Il ricorso alla motivazione pastorale maschera, anche inconsapevolmente, una deriva soggettivistica e una volontà manipolatrice”, spiega il documento. Mentre è lo stesso Concilio Vaticano II, riaffermando la posizione netta del Concilio di Trento, che dichiara “l’assoluta indisponibilità del settenario sacramentale all’azione della Chiesa”.
L’indicazione è assolutamente chiara. “Nessuno, anche se sacerdote, osi, di sua iniziativa, aggiungere, togliere o mutare alcunché in materia liturgica”. La sostanza della vicenda è perciò assolutamente inequivocabile. “Modificare di propria iniziativa la forma celebrativa di un Sacramento non costituisce un semplice abuso liturgico, come trasgressione di una norma positiva, ma un vulnus inferto a un tempo alla comunione ecclesiale e alla riconoscibilità dell’azione di Cristo”.
Una riconoscibilità che deve essere chiara e messa al centro del Battesimo, e “che nei casi più gravi rende invalido il Sacramento stesso, perché la natura dell’azione ministeriale esige di trasmettere con fedeltà quello che si è ricevuto”.
Il soggetto che celebra il sacramento infatti non agisce in maniera collegiale ma ministeriale. Perciò il ministro non è un funzionario che parla in quanto sta svolgendo un ruolo che gli è stato affidato. Ma al contrario opera “ministerialmente come segno-presenza di Cristo, che agisce nel suo Corpo, donando la sua grazia”.
Solo in questa unica veste può essere compreso “il dettato tridentino sulla necessità del ministro di avere l’intenzione almeno di fare quello che fa la Chiesa”. Un’intenzione che non può in alcuni modo rimanere soltanto a un livello interiore della persona, altrimenti il rischio è quello di andare incontro a derive soggettivistiche.
Al contrario, il Battesimo deve esprimersi anche e soprattutto in un “atto esteriore”. E, punto fondamentale e di cui non si può fare a meno, questo deve essere compiuto “non in nome proprio, ma nella persona di Cristo”.
La nota conclude quindi con una spiegazione che va a chiarificare ancora meglio la natura della risposta. “Alterare la formula sacramentale significa, inoltre, non comprendere la natura stessa del ministero ecclesiale, che è sempre servizio a Dio e al suo popolo e non esercizio di un potere che giunge alla manipolazione di ciò che è stato affidato alla Chiesa con un atto che appartiene alla Tradizione”, conclude il testo.
“In ogni ministro del Battesimo deve essere quindi radicata non solo la consapevolezza di dover agire nella comunione ecclesiale, ma anche la stessa convinzione che sant’Agostino attribuisce al Precursore, il quale «apprese che ci sarebbe stata in Cristo una proprietà tale per cui, malgrado la moltitudine dei ministri, santi o peccatori, che avrebbero battezzato, la santità del Battesimo non era da attribuirsi se non a colui sopra il quale discese la colomba, e del quale fu detto: “È lui quello che battezza nello Spirito Santo” (Gv 1, 33)».
Quindi, commenta Agostino: «Battezzi pure Pietro, è Cristo che battezza; battezzi Paolo, è Cristo che battezza; e battezzi anche Giuda, è Cristo che battezza»”.
Giovanni Bernardi
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