Con la beatificazione di Rosario Livatino (1952-1990) ritorna di grande attualità la storia della conversione del suo killer. La vicenda venne alla luce nell’aprile 2016, durante il Giubileo della Misericordia.
Domenico Pace, vent’anni all’epoca dell’omicidio Livatino (21 settembre 1990), scrisse una lettera a papa Francesco e al postulatore della causa di beatificazione.
Dal carcere di Sulmona, in cui stava scontando l’ergastolo, Pace descrisse la sua vita giovanile, priva di motivazioni e di prospettive, nella Sicilia di fine anni ’80. Una condizione comune a tanti altri ragazzi, che, così, finivano facilmente nelle mani della criminalità organizzata.
Il giovane Pace fu quindi assoldato nel commando che avrebbe ucciso il giudice Livatino nella campagna intorno a Canicattì. L’ergastolano aveva già provato in precedenza a chiedere perdono ai genitori del magistrato, quando questi erano ancora in vita ma non era riuscito a farlo.
“Ho provato dolore – scrisse Domenico Pace – tanto dolore ma a un certo punto inaspettatamente ho provato un poco di serenità, è accaduto quando il bene e il male che prima dentro di me mi si mischiavano piano piano si sono distinti e chiariti”.
Nello scrivere la sua lettera, l’uomo si sentì “liberato dal peso più grande delle mie colpe”. Poi aggiunse: “La mia fede mi aiuta a sperare che il giudice Rosario Livatino mi abbia perdonato”, perché “lo sento vicino, ogni istante è con me e mi aiuta a vivere con forza d’animo la pena infinita che sto scontando”.
La lettera di Domenico Pace venne accolta positivamente dal cardinale arcivescovo di Agrigento, Francesco Montenegro. “Ciò che avviene nella coscienza di un uomo nel bene e nel male – affermò il porporato – è sempre impossibile decifrarlo. Però se dopo aver fatto del male, dopo avere ucciso un uomo, si sente il bisogno di chiedere perdono, per quel gesto così violento e crudele, quella richiesta di perdono non può che dare gioia nel constatare che dopo il male ci si possa rialzare”.
“Ovviamente – aggiunse il cardinale Montenegro – la giustizia umana fa il suo corso ma la giustizia di Dio segue altri sentieri. Questa richiesta di perdono va inquadrato nell’atteggiamento del Padre che accoglie il figlio e lo fa rientrare in casa”.
Da parte sua il postulatore della causa di beatificazione, don Giuseppe Livatino (cugino del Servo di Dio) commentò: “Credo che questa richiesta di perdono vada accolta nella sua profondità e nella sua valenza. Può essere un forte segnale, un invito pressante alla conversione dei cuori di quanti hanno commesso orrendi delitti”.
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Domenico Pace non è l’unico degli assassini di Livatino ad essersi convertito in carcere. Del commando omicida faceva parte anche Gaetano Puzzungaro, 22 anni, all’epoca dei fatti. Intervistato in esclusiva da Panorama nel 2017, Puzzungaro raccontò di aver avuto un’infanzia e un’adolescenza serene a Palma di Montechiaro: la famiglia era onesta, andava a Messa ed era anche scout.
Intorno ai vent’anni, visse una profonda crisi esistenziale. Molti amici erano andati via dal paese: chi iniziava l’università, chi si sposava, chi partiva per il militare. Rimasto solo, il giovane Puzzungaro iniziò a frequentare cattive compagnie, per poi finire in breve tempo nel giro della Stidda, organizzazione mafiosa diffusa nell’agrigentino.
Descrivendo i momenti successivi all’agguato mortale, Puzzungaro precisò. “Non eravamo contenti o euforici, non abbiamo brindato come qualcuno ha detto. Quella mattina io speravo che il dottor Livatino non facesse quel tragitto”.
Fu nel 1993, dopo aver ascoltato la celebre invettiva di San Giovanni Paolo II alla Valle dei Templi (“Pentitevi! Una volta verrà il giudizio divino”), che il killer, già in carcere da un anno, iniziò la sua svolta. “Mi ha fatto molto riflettere, ho capito che dovevo uscire da quella vita – disse Puzzungaro –. Ho visto le immagini del Papa che incontrava i genitori di Livatino e ho ancora quell’immagine impressa nella mente. I loro sguardi. Queste due persone non hanno mai espresso parole di condanna, ma solo di perdono e di vicinanza ai nostri genitori”. Oggi Gaetano Puzzungaro si rammarica di “non aver avuto il coraggio” di incontrare i genitori di Livatino “quando avrei potuto farlo”, tuttavia ha “pregato per loro”.
Precisando di non essere diventato mai un “collaboratore di giustizia”, avendo temuto per la sua famiglia, Puzzungaro ha vissuto un “pentimento interiore, spirituale”. A distanza di circa trent’anni, “non passa domenica che non preghi per lui (Livatino, ndr) durante la Messa”. Qualche volta l’assassino ha sognato la sua vittima: “Lo vedo sul ciglio della strada, a terra. Io che passo e poi torno indietro per aiutarlo. Ci parlo anche col dottor Livatino: di notte faccio lunghe chiacchierate con lui”.
Dopo aver ascoltato il discorso contro le mafie di papa Francesco a Cassano allo Jonio, Puzzungaro ha preso un’importante decisione: quella di testimoniare per la causa di beatificazione di Livatino. “All’epoca – confidò – non mi ero reso conto che Livatino lavorasse per i giovani, per una società migliore. Lavorava anche per me, che mi ero perso in quel mostro che fagocitava tutto”.
Il suo percorso spirituale definitivo è iniziato tra il 1999 e il 2000, sotto la guida dei cappellani e dei religiosi operativi al carcere milanese di Opera. Vent’anni dopo, Gaetano Puzzungaro ha guadagnato poche ma solide certezze, in un mare di dolore e di rimorsi. Sa che Dio l’ha perdonato e, riguardo a Livatino, “oggi mi farei ammazzare piuttosto che rifare ciò che gli ho fatto”.
Luca Marcolivio
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