La polemica politica è l’argomento più banale della recente questione che ha riguardato le croci in montagna. Al di là delle precisazioni di taluni, il vero aspetto che non convince, in realtà, è un altro.
Non conta soltanto ciò che si dice ma come lo si dice. La diatriba sorta intorno al Club Alpino Italiano, a seguito delle dichiarazioni di un suo rappresentante, è un episodio che può essere letto secondo prospettive anche molto diverse ma non necessariamente in contraddizione tra loro.
Un caso politico e un colossale equivoco
Una prospettiva è quella della polemica politica. L’ipotesi di rimuovere le croci posizionate in luoghi d’alta montagna è risultata fortemente sgradita a tre ministri della Repubblica. Tutto è sorto da un equivoco abbastanza macroscopico.
Per quanto, tuttavia, i suddetti politici (per la cronaca: Daniela Santanché, Matteo Salvini e Paolo Zangrillo) possano aver frainteso la discussione sorta ad un convegno alla presenza di un esponente del Cai, il problema esiste ed è di carattere essenzialmente culturale.
Lasciando da parte i risvolti politici della vicenda – che in questa sede non affronteremo – va preso atto, in primo luogo, delle affermazioni del presidente del Cai, Antonio Montani che ha messo in chiaro l’inesistenza di una “posizione ufficiale” dell’organizzazione.
Montani si è scusato “personalmente con il ministro per l’equivoco generato dagli articoli apparsi sulla stampa” e, al contempo, ha rimarcato: “Personalmente, come credo tutti quelli che hanno salito il Cervino, non riesco ad immaginare la cima di questa nostra montagna senza la sua famosa croce”.
Non buttarle giù? È il minimo sindacale…
Quali sono tuttavia le frasi che hanno gettato nello scompiglio una parte del mondo politico, suscitando anche il dispiacere di molti cattolici? Tutto ha preso forma nel corso di un dibattito all’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano, alla presenza, tra gli altri, di monsignor José Sànchez de Toca y Alameda, relatore del Dicastero delle Cause dei Santi, dello scrittore Marco Ferrari, in rappresentanza del Cai e del docente di diritto Marco Valentini.
Tutti i relatori si erano detti concordi sull’opportunità di lasciare integre le croci nei luoghi di montagna e, al tempo stesso, di evitare l’installazione di croci nuove. Così si legge sul sito del Cai, in un articolo di chiarimento del post-convegno, che, come spiegato, rispecchia l’opinione dell’autore e non dell’intera organizzazione: “Il Cai guarda infatti con rispetto le croci esistenti, ma non solo: si preoccupa del loro stato ed eventualmente, in caso di necessità, si occupa della loro manutenzione (ripulendole dagli adesivi, restaurandole in caso di bruschi crolli…). Questo perché – è giusto evidenziarlo una volta di più – rimuoverle sarebbe come cancellare una traccia del nostro cammino; un’impronta a cui guardare per abitare il presente con maggior consapevolezza”.
C’è poi, però, un’ulteriore frase, che, invece di gettare acqua sul fuoco, rischia – forse intenzionalmente – di riattizzare le polemiche: “Ed è proprio il presente, un presente caratterizzato da un dialogo interculturale che va ampliandosi e da nuove esigenze paesaggistico-ambientali, a indurre il Cai a disapprovare la collocazione di nuove croci e simboli sulle nostre montagne”.
Il solito (malinteso) concetto di “dialogo”
Appurato, quindi, che nessuno ha intenzione di rimuovere le croci di montagna esistenti, per quale motivo bisognerebbe così categoricamente, vietare l’elevazione di croci nuove? Perché sono già tante? Per via delle “nuove esigenze paesaggistico ambientali”? Per “rispetto” verso altre religioni? L’articolo sembra suggerire queste ultime due ipotesi ed usa un aggettivo piuttosto tranchant come “disapprovare”.
Pare quasi che si sia voluto trovare un compromesso: nessuno vuole abbattere le croci in montagna – per carità, non siamo mica talebani – ma, al tempo stesso, è ritenuta non al passo coi tempi, la possibilità di introdurne di nuove. Seguendo la stessa logica portata alle estreme conseguenze, tuttavia, qualcuno potrebbe affermare la necessità di fermare la costruzione di nuove chiese e ciò rappresenterebbe una chiara limitazione alla libertà religiosa e di culto.
Evitare di apporre nuove croci per ragioni ambientali e paesaggistiche? Per quanto veniamo da mesi e anni di dissesto idrogeologico un po’ in tutto il Paese, andrebbe dimostrato che in qualunque luogo delle nostre Alpi e dei nostri Appennini, un’operazione del genere comporterebbe un rischio frane o un danno oggettivo all’ecosistema. Quest’argomentazione, dunque, è quantomeno discutibile.
Ancor meno difendibile l’argomentazione del “dialogo interculturale”. Un vero dialogo, anche sul piano simbolico, è inclusivo mai sottrattivo. Un approccio del genere è molto simile a quello di chi, sotto Natale, vorrebbe vietare i presepi o i canti tradizionali perché, secondo alcuni, ‘offenderebbero’ gente di altre fedi.
Costruire nuove croci in luoghi d’alta montagna potrà essere un’operazione complessa sul piano logistico. Qualcuno potrà anche dire che, in questi contesti, ve ne sono già molte. Perché, però, precluderci a priori una possibilità del genere?