Dopo la morte c’è l’eternità. Consequenziale alla prima predica d’Avvento del cardinale Raniero Cantalamessa, è stata la sua riflessione dell’11 dicembre.
La pandemia, ha osservato il predicatore della Casa Pontificia, porta a galla “la precarietà e la transitorietà di tutte le cose”. Ma offre l’occasione per riscoprire che c’è, nonostante tutto, un punto fermo, un terreno solido, anzi una roccia, su cui fondare la nostra esistenza terrena”.
È proprio per questo che è importante “riscoprire la fede in un aldilà della vita”. In questo modo comprendiamo che “siamo tutti compagni di viaggio, in cammino verso una patria comune, dove non esistono distinzioni di razza o di nazione”.
La “vita eterna”, ha proseguito il porporato, non è “una categoria astratta” ma “una persona”. Con Gesù, quindi, andiamo a “condividere il suo stato di Risorto nella pienezza e nel gaudio ineffabile della vita trinitaria”.
Il “secolarismo” ha prodotto una “radicale eliminazione dell’orizzonte dell’eternità”: di conseguenza, la sofferenza umana “appare doppiamente e irrimediabilmente assurda”. E il destino dell’uomo si riduce a “un disegno creato dall’onda sulla riva del mare che l’onda successiva cancella”.
San Paolo, però, ci ha ricordato che “se Cristo non è risorto vuota è la nostra predicazione, vuota anche la nostra fede” (1Cor 15,14.19). Pertanto, “l’annuncio della vita eterna costituisce la forza e il mordente della predicazione cristiana”, ha sottolineato il predicatore.
Gli uomini sono, per natura, “esseri finiti capaci di infinito”, “esseri mortali con un innato anelito all’immortalità”. Primo frutto della “rinnovata fede nell’eternità” è quindi “quello di renderci liberi, di non attaccarci alle cose che passano”.
Nessuno sfrattato, ha esemplificato Cantalamessa, si preoccupa di spendere “tutto il suo denaro per rimodernare e abbellire la casa che deve lasciare”. Parimenti, tutti noi siamo degli “sfrattati” da questo mondo, per cui dobbiamo solo “preoccuparci di fare opere buone che ci seguiranno dopo la morte nella nuova casa”.
Affievolendosi l’“idea di eternità”, diminuisce nei credenti “la capacità di affrontare con coraggio la sofferenza e le prove della vita”. Vale la pena, allora, di seguire l’esempio di San Bernardo e Sant’Ignazio di Loyola, i quali, di fronte a ogni ostacolo, si domandavano: “Che è questo di fronte all’eternità?”.
L’eternità, ha aggiunto il cappuccino, non è solo “una promessa o una speranza” ma anche “una presenza e una esperienza”. Essa non si limita, come affermava Marx, a un “riversare in cielo le attese deluse della terra”.
Facciamo esperienza dell’eternità, ogniqualvolta compiamo “un vero atto di fede in Cristo, perché chi crede in lui possiede già la vita eterna (cfr 1Gv 5,13)”. La viviamo “ogni volta che riceviamo la comunione, perché in essa “ci viene dato il pegno della gloria futura”. Assaggiamo un po’ di eternità ogni volta che ascoltiamo le “parole di vita eterna” del Vangelo.
L’eternità, ha continuato Cantalamessa, è come vivere “immersi nell’oceano senza rive e senza fondo dell’amore trinitario. Ma non ci annoieremo? Domandiamo a dei veri innamorati se si annoiano al culmine del loro amore e se non vorrebbero piuttosto che quell’istante durasse in eterno”.
Il predicatore della Casa Pontificia ha quindi citato Antonio Fogazzaro: “Tutto tranne l’eterno al mondo è vano”. E, in conclusione, ne ha adattato le parole: “Tutto, tranne Gesù, al mondo è vano”.
Luca Marcolivio
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