Insegnaci a contare i nostri giorni e giungeremo alla sapienza del cuore (Sal 90,12). Questo il tema delle prediche di Avvento di padre Raniero Cantalamessa.
Il Predicatore della Casa Pontificia ha tenuto la prima delle sue tre meditazioni da qui al 18 dicembre, davanti a papa Francesco e ai membri della Curia Vaticana, conservando il saio cappuccino e recando sul capo la berretta cardinalizia, ricevuta durante il concistoro di sabato scorso.
Lo scenario pandemico ha stimolato Cantalamessa a una serie di riflessioni sulla caducità della vita. Ci sono due approcci cristiani alla morte, ha spiegato: il primo è “kerigmatico”, alla luce della Resurrezione di Cristo, quale “ponte verso la vita eterna”.
Il secondo approccio è “sapienziale”, attinge in modo particolare all’Antico Testamento e fa leva soprattutto sulla saggezza dei padri della Chiesa. Esso comporta “riflettere sulla realtà dolorosa della morte così come essa si presenta all’esperienza umana, allo scopo però di trarre da essa lezione per vivere bene”.
Anche nel Vangelo, Gesù ammonisce: “Vegliate perché non sapete quando è il momento” (Mc 13,33). “Stolto questa notte ti sarà richiesta la tua vita” (Lc 12,20). “Che giova infatti all’uomo guadagnare il mondo intero, se poi perde la propria anima?” (Mc 8,36).
Un padre del deserto, ha proseguito Cantalamessa, “aveva preso l’abitudine di lasciar cadere il fuso per terra e di mettere la morte davanti ai suoi occhi prima di sollevarlo di nuovo”. Molti santi, dal XVI secolo in poi, sono ritratti in meditazione “davanti a un teschio”. Tale modo sapienziale di parlare della morte, ha puntualizzato il cardinale, “si riscontra in tutte le culture, non solo nella Bibbia e nel cristianesimo”, tanto è vero che è presente, sia pure “secolarizzato”, nel “pensiero moderno”.
Il predicatore ha fatto riferimento a Jean Paul Sartre che “ha rovesciato il rapporto classico tra essenza ed esistenza”, affermando il primato dell’esistenza. In altri termini, ciò significa che “non esiste una scala di valori anteriore a tutto – Dio, il bene, i valori, la legge naturale – a cui l’uomo deve conformarsi ma che tutto deve partire dalla propria individuale esistenza e dalla propria libertà”. La vita, cioè, si decide esclusivamente con le proprie scelte. La concezione di Sartre, tuttavia, cade in contraddizione su un punto: “Cosa potrà progettare l’uomo se non dipende da lui se domani sarà ancora in vita?”.
Un filosofo che parte da “premesse analoghe” è Martin Heidegger il quale, definendo l’uomo un “essere per la morte”, egli fa della morte “non un incidente che pone fine alla vita” ma “la sostanza stessa della vita, ciò di cui la vita è fatta”. “Ogni minuto che passa è sottratto alla vita e consegnato alla morte”, quindi “la morte non è solo la fine ma anche il fine della vita”. Fulcro dell’uomo, allora, è “il suo nulla”, tutte le possibilità, in realtà, sono “impossibilità”. Non resta che “rassegnarsi e amare il proprio destino”: una “versione moderna dell’amor fati”, ha commentato il cardinale Cantalamessa.
Chi aveva anticipato il pensiero moderno sulla morte era stato Sant’Agostino, traendone però “una conclusione completamente diversa”, non all’insegna del “nichilismo” ma della “fede nella vita eterna”. Sul destino di uomo, argomentava Agostino, si possono fare tante ipotesi e avanzare tutti i dubbi possibili ma nessuno potrà mai dire: “forse morirà, forse non morirà…”. La morte, quindi, è l’unica cosa “veramente certa nella vita”. La morte è quindi “la malattia mortale che si contrae nascendo”.
Sull’onda dell’avanzare della tecnologia, ha proseguito il predicatore, l’uomo moderno rischia di comportarsi come il protagonista di quella parabola evangelica (Lc 12,16-21) che, disponendo di molti beni, inizia godersi la vita e non pensare al domani. “La presente calamità è venuta a ricordarci quanto poco dipende dall’uomo progettare e decidere il proprio futuro fuori dalla fede”, ha detto Cantalamessa.
La morte rimane “l’unica cosa certa” ma ad essa segue sempre “un giudizio” e, da questa prospettiva, “tutto assume il suo giusto valore”. Come affermava Totò, la morte è “una livella, azzera tutti i privilegi. Quante crudeltà in meno si commetterebbero sulla terra, se si pensasse che tutti dovremo morire?”, ha domandato il cardinale.
“Il pensiero della morte – ha proseguito – ci impedisce di attaccarci alle cose”, la morte è come “una buona pedagoga, ci insegna tante cose, se soltanto la sappiamo ascoltare con docilità”. Pensare alla morte “è l’unica arma che ci è rimasta per scuoterci dal torpore di una società opulenta”. Allora è opportuno “tornare a predicare da cristiani sulla morte”, pensarla come San Francesco che “nel suo Cantico della Creature ha parole dolcissime e terribili”.
Nell’Eucaristia “noi facciamo testamento, decidiamo a chi lasciare la vita”, perché “la morte non è solo la fine, ma anche il fine della vita”. Solo così saremo “preparati ad accogliere il messaggio di speranza”, per cui “la vita non è tolta, ma trasformata”, ha quindi concluso Cantalamessa.
Luca Marcolivio
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