Nato senza la gamba destra, ha fondato la Nazionale di calcio amputati di cui ne è il capitano, ha superato una forte depressione grazie all’affidamento a Dio.
Francesco Messori è un attaccante e fa tanti goal, il suo sogno è giocare le olimpiadi con la Nazionale di calcio amputati.
Francesco Messori nasce a Bologna il 22 novembre 1998, è un calciatore italiano nato senza la gamba destra. Fin da bambino coltiva la passione per il calcio.
Nel 2011, ad Assisi, incontra il Centro Sportivo Italiano con il quale decreta nel 2012 la nascita della Nazionale italiana calcio amputati di cui diviene capitano.
Ha fondato la Nazionale di Calcio amputati quando aveva solo 13 anni, poi con la maglia azzurra ha giocato 4 mondiali e 2 europei. Il suo idolo è Leo Messi, da cui deriva il suo soprannome fin da bambino “Messi”.
Nella sua vita c’è stata anche la depressione e i tentativi di suicidio, una sofferenza dolorosa superata grazie all’affidamento a Dio.
Ha scritto un libro autobiografico nel 2019“Mi chiamano Messi” con la prefazione di Marco Tardelli.
Come è iniziata la tua avventura nel mondo del calcio e come è nata la Nazionale di Calcio amputati di cui ne sei il capitano?
Sono sempre stato appassionato di calcio sin da piccolo, è stata una passione innata. Ho iniziato a camminare con la protesi all’età di un anno e mezzo e l’ho portata anche sui campi da calcio. All’età di 7 anni ho iniziato a giocare con i normodotati nella squadra di parrocchia del mio paese; abito a Correggio in provincia di Reggio Emilia. Ho iniziato a giocare come portiere.
Sono stato tesserato dal CSI nel 2012 e questo tesseramento mi ha permesso di giocare in campionati ufficiali a livello nazionale, insieme ai normodotati. Questo mi ha dato modo di avere una certa visibilità per poi arrivare alla realizzazione del mio sogno, quello di potermi confrontare alla pari, sul campo, insieme ad altri ragazzi senza una gamba che giocassero con le stampelle come me.
E’ nata proprio attraverso facebook questa idea, insieme ai miei genitori che sono stati i primi ad accogliere questa disabilità. Grazie a facebook abbiamo creato un gruppo chiamato Calcio amputati Italia, e abbiamo pubblicato un post nel quale abbiamo scritto che il mio desiderio era quello di trovare altri ragazzi amputati desiderosi di giocare a calcio con le stampelle. Nel giro di un anno circa siamo riusciti a raccogliere una decina di adesioni che hanno permesso nel dicembre 2012, la nascita della Nazionale Italiana di calcio per amputati.
Perché hai deciso di abbandonare la protesi ad un certo punto della tua vita?
Ho deciso di abbandonare la protesi perché avendo una genesia totale dell’arto, ero costretto a legare la protesi al busto, e a livello fisico mi creava molti problemi. Era molto scomoda, così ho deciso di abbandonarla ed è iniziata la mia vita con le stampelle.
Verso i 12 anni circa, ho iniziato a vivere con le stampelle nella vita quotidiana e le ho anche portate ed iniziato ad utilizzarle nella vita sportiva, nel calcio, abbandonando il ruolo di portiere e passando in attacco, inizialmente.
Hai trovato difficoltà nella tua vita, pregiudizi, giudizi ecc , per il fatto di avere una sola gamba?
I miei genitori per primi non mi hanno mai fatto pesare nulla, loro stessi hanno accettato questa disabilità, con tutte le difficoltà del caso ma non mi hanno mai nascosto agli occhi delle altre persone per paura che mi osservassero e giudicassero; mi hanno sempre lasciato libero in mezzo agli altri bambini di fare piu quello che mi piaceva e ovviamente questo mi ha permesso di scoprire i miei limiti ma anche le mie capacità ma soprattutto conoscere e far fronte a quella che comunque sarebbe stata la realtà che prima o poi avrei dovuto affrontare.
A me non piace quando la gente dice che “la disabilità è solo negli occhi di chi guarda” nel senso che comunque la disabilità è oggettiva, non è che si possa nascondere o si possa deviare. La disabilità c’è ed esiste, la differenza più grande secondo me sta nel come la fai vivere tu agli altri. Sicuramente ci saranno state le piccole prese in giro, le prese in giro, fin da quando ero piccolo ma mai così tante. Gli altri si rapportavano come se io fossi un bambino come tutti gli altri, ed è per questo che non ho subito mai atti di bullismo ed esclusioni.
Ad un certo punto nella tua vita inizi ad avere l’obiettivo della “perfezione” che ti porta a diventare quasi narcisista. Che succede esattamente?
Ad un certo punto, tenendo conto di quello che è stato il mio percorso, ho iniziato a dare importanza a cose futili derivanti al punto dal voler sempre raggiungere la perfezione; volevo raggiungerla in ogni campo specialmente nel campo della bellezza, dell’apparenza, dell’estetica ecc.. Dopo che nel mio piccolo avevo vissuto questa mediaticità che mi ha portato ad essere abbastanza conosciuto, è chiaro che mi sono fatto un immagine di me stesso estrema che ha portato a nascondere quella che era la mia persona più intima. Volevo sempre apparire, ovunque andavo volevo essere il numero uno, tutto questo mai mostrato con arroganza verbale ma sempre ho cercato di mostrarla con la mia semplice presenza. Per questo volevo apparire anche con capi di abbigliamento estrosi, che mi portavano a ricercare la mia autenticità al di fuori della mia disabilità.
Le persone mi dicevano che ero il numero uno ecc … ho iniziato io stesso a considerarmi un dio, ed è questo che mi ha portato al crollo, l’aver costruito un immagine di me fuori dal normale.
Come arriva la depressione nella tua vita?
Sono caduto in seguito a tutto ciò nell’abisso più profondo della mia vita dove non riuscivo più a riconoscere chi fosse il vero Francesco se quello nato senza una gamba col sogno di giocare a calcio oppure il Francesco Messori, il personaggio che col mio cognome mi stavo costruendo e che aveva appunto iniziato a dare importanza a tutte queste cose coprendo la sua vera persona.
La depressione è stata un accumulo di cose che mi hanno fatto crollare, in questa depressione non riuscivo più a riconoscermi, a guardarmi allo specchio, perché forse non mi ero mai accettato veramente per quello che ero. Ho iniziato a non dormire più la notte neanche con le medicine, e ogni momento volevo farla finita. Sembra brutto da dirlo ma dal momento che è iniziata la mia depressione, io avevo capito che nessun aiuto umano avrebbe potuto salvarmi. E’ per questo che tutti i giorni non pensavo ad altro di come poterla fare finita.
Ho tentato due volte in maniera più importante a farla finita: la prima volta è stata a casa, andata non a buon fine. Un pomeriggio, quando era arrivata a casa mia madre ho avuto il coraggio di raccontarle quello che avevo fatto, ero già seguito a livello psichiatrico, farmacologico e psicologico e mia madre stessa l’indomani aveva deciso di mandarmi dallo psichiatra che mi ha ricoverato e nella struttura psichiatrica ho messo in atto il secondo tentativo di suicidio, ben più grave.
Prima di questi tentativi, la famosa luce in fondo al tunnel non esisteva per me, ma esisteva solo questo buio pesto che mi portava a farla finita. Per me in quel momento, quello che dava gloria al mio nome era quello di farla finita perché avrei compiuto un atto estremo e la gente avrebbe potuto parlare di me. Ovviamente tutto questo era una falsa gloria.
E’ stata la fede che ti ha aiutato a superare questo momento di forte depressione?
Nel periodo buio mi sono affidato a Dio, e non mi ha deluso, quando mi sono svegliato in pronto soccorso, dopo che mi hanno salvato la vita e rianimato, ho visto una luce di speranza, non una luce vista con gli occhi umani ma col cuore. Una luce che mi ha fatto dire insieme a Lui “Adesso ce la facciamo, insieme”; tutto questo mi ha purificato facendomi conoscere cos’è il vero amore, e non è quello che l’uomo si costruisce da solo senza Dio. Una cosa che ci tengo a dire in base alla mia esperienza di fede è che la felicità dell’uomo al di fuori del rapporto con Dio è farsi servire, è ricercare la felicità appunto nel successo, nella fama, nei soldi, nella ricchezza, nel potere ecc …
La concezione di felicità dell’uomo che vive in rapporto con Dio è totalmente il contrario. L’amore autentico sta nel donarsi completamente agli altri, nel non tenere conto del male ricevuto, nel perdonare sempre e non volere nulla in cambio. Io sono semplicemente un testimone che vuole portare ai propri fratelli e alle proprie sorelle un qualcosa di grande che ho ricevuto e che non è mio e per esserne grato la condivido con tutti. Lui mi ha salvato ma noi dobbiamo dare il nostro si a Cristo e aprire il cuore a Lui e al Suo agire che è l’unica cosa in grado di salvare l’uomo perché noi siamo fatti ad immagine di Dio e quando noi siamo al di fuori di questa immagine … siamo brutti, ma quando riusciamo a farsì che questa immagine possa compiersi in noi ecco che troviamo la bellezza, la sola nostra identità, troviamo noi stessi.
Hai incontrato Papa Francesco 3 volte. Cosa ricordi di quegli incontri?
Ricordo di lui una persona squisita, mi ha colpito che si è alzato lui per venirmi incontro ad abbracciarmi e a sorridermi, mi ha colpito anche che lui può avere migliaia di persone davanti ma trova un minuto per ascoltare tutti e rispondere a tutti.
Ritieni che la tua disabilità e in generale che la disabilità si possa considerare un dono?
Considero che la mia disabilità e in generale la disabilità possa essere considerata un dono, però noi dobbiamo essere in grado non da soli, di accoglierla e di renderla un dono per noi stessi e per gli altri. Lo sport ne è capace, con lo sport sono riuscito ad abbattere tutti i pregiudizi.
Ogni dono non condiviso porta all’egoismo.