I Santi Carlo Lwanga e 12 compagni vennero arsi vivi per la loro fede che non abiurarono mai. Fino all’ultimo, infatti, resistettero alle peggiori atrocità.
I fatti relativi a questi santi riportano agli anni tra il 1885 e il 1887, periodo in cui in Uganda i cristiani subirono una violenta persecuzione, come purtroppo continua ad accadere ancora oggi in molte parti del mondo. In quel caso ci furono circa un centinaio di vittime, e tra questi vi era anche Carlo Lwanga, domestico del re Muanga dell’antico regno indipendente del Buganda, oggi parte dell’Uganda, bruciato vivo insieme a dodici compagni il 3 giugno 1886.
In un primo momento i re erano favorevoli alla loro opera
Carlo era il capo dei paggi reali, battezzato durante l’evangelizzazione attuata dai Padri Bianchi. In un primo momento la loro opera, che era stata avviata nel 1879, venne ben accolta sia dal re Mutesa che dal suo successore Muanga. Poi però questo si fece influenzare dal cancelliere del regno e dal capotribù, e le vicende presero una piega ben più drammatica.
“Io ti prenderò per mano. Se dobbiamo morire per Gesù, moriremo insieme, mano nella mano”, furono le ultime parole pronunciate da Carlo Lwanga e rivolte al giovane Kizito, morto con lui a soli 14 anni. Il loro martirio fu condiviso insieme ad altri compagni, sia cattolici che anglicani. Su Carlo fecero infatti presa le parole del Vangelo pronunciate e testimoniate dai Missionari d’Africa, meglio conosciuti come “Padri Bianchi”, fondati dal Cardinale Lavigerie.
Anche Mwanga era stato educato dai “Padri Bianchi”, ma era ribelle
Il giovane venne chiamato a corte come prefetto della Sala Reale dopo essersi convertito al cristianesimo nel 1885, e subito divenne un punto di riferimento per gli altri, in particolare per i neoconvertiti. Le sue doti sono quelle di leader e soprattutto di un vero fratello maggiore, e di tutti gli altri lui ne sostiene e incoraggia la fede con continuità e profonda convinzione.
Anche il re Mwanga era stato educato dai “Padri Bianchi”, tuttavia lui al contrario aveva un carattere fortemente testardo e ribelle. Venne sobillato dagli stregoni locali che vedono il loro potere compromesso dalla forza del Vangelo, e da allora il sovrano cominciò con una vera e propria persecuzione contro i cristiani che non cedono ai suoi voleri. Carlo viene condannato a morte il 25 maggio 1886, insieme agli altri condannati nel Palazzo reale di Munyonyo a Namugongo.
Il sovrano decise di trasferirli per accrescere le loro sofferenze
Il sovrano decise di trasferirli in quel luogo per accrescere le loro sofferenze. Per arrivarvi, infatti, dovettero percorrere ben 27 miglia, che diventano una vera e propria “Via Crucis”. Lungo la strada i condannati furono oggetto delle violenze dei soldati del re che cercano, con ogni mezzo, di farli abiurare. Durante il cammino, durato otto giorni, i soldati li trafiggono con lance, li impiccano e li inchiodano agli alberi.
I sopravvissuti arrivarono, allo stremo delle forze, sulla collina di Namugongo, dove li aspetta il rogo. Lì sia Carlo Lwanga che i suoi compagni vennero arsi vivi, insieme ad alcuni fedeli anglicani. Loro però non si scoraggiano e pregano fino alla fine, senza emettere nemmeno un gemito. La loro prova di fede è luminoso e sarà nella storia molto feconda. Uno in particolare, Bruno Ssrerunkuma, prima di morire pronunciò una frase che resterà impressa nei cuori di molti.
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La frase pronunciata è: “Una fonte che ha molte sorgenti non si inaridirà mai. E quando noi non ci saremo più, altri verranno dopo di noi”.
Giovanni Bernardi