L’intervista in ginocchio concessa a La Repubblica da Nichi Vendola, vero e proprio spot per le adozioni gay, vorrebbe raccontare ad uso della melior pars del Paese (o meglio, di quella porzione d’Italia abituata a considerarsi davvero una spanna o più al di sopra della gente normale, volgare…) la favola edificante di Tobia, figlio dell’utero in affitto e di “due papà”, che è un piccolo capolavoro di propaganda.
Intervista naturalmente scritta nel codice della “lingua di legno”, il linguaggio eufemistico di cui l’allievo del parolaio rosso Bertinotti è venerato maestro. Nichi, ora in Canada assieme a Tobia e al compagno Ed, illustra al pubblico diRep le meraviglie dell’utero in affitto (la gestazione del futuro), delle adozioni gay e canta le lodi della famiglia allargata di Tobia (una specie di comune idilliaca comprendente anche la donatrice di ovuli e la madre portatrice), incensa la tecnoscienza, dispensatrice di gioie esistenziali.
Lo scopo dell’intervista è chiaro: si tratta di “normalizzare” le adozioni gay (e dunque la famiglia omogenitoriale), orientando l’immaginario collettivo verso la sua completa accettazione. Per attivare questo quadro propagandistico occorre pertanto evocare un’atmosfera familiare, carica di immagini rassicuranti, pacificatrici, concilianti (a cominciare dalla piccola casetta in Canadà, vecchia gloria nazionalpopolare). A tal fine Nichi, come spesso ha fatto nel corso della sua carriera politica, non esita a strumentalizzare la narrazione biblica (non avvedendosi di commettere la hybris della creatura che ardisce elevarsi a creatore). Così non stupisce, alla luce di questa ispirazione a un tempo idolatrica e propagandistica, che l’esilio canadese dell’ex governatore della Puglia venga immediatamente accostato alla fuga della sacra famiglia in Egitto, né che lo stesso Vendola si presenti quale “padre putativo” di Tobia (alla stregua di san Giuseppe per Gesù) e si richiami alle madri sterili dell’Antico testamento cui la legge soprannaturale aveva concesso una inaudita fecondità.
A un livello meno spirituale, la patria ideale di Nichi non si trova certo più nel vecchio comunismo, antico ma ormai sbiadito amore vendoliano. Macché, oggi la terra promessa si trova nel cuore del mondo capitalistico, tra il Canada (“patria dei diritti”) e la California, dove il piccolo Tobia è stato registrato all’anagrafe, perché lì «la legge consente di scrivere quello che vuoi».
La dittatura del desiderio trova così una duplice legittimazione: nella legge divina e nella legge terrena. Dio e lo Stato appaiono come meri esecutori della volontà privata, riducendosi ad essere null’altro che servitori del desiderio umano (dal Dio tappabuchi al Dio maggiordomo?).
Ma Dio e Stato per l’uomo del XXI secolo non bastano. E Vendola lo sa bene: per l’uomo della società tecnologica serve anche una legittimazione sul piano cognitivo. A questa esigenza si provvede arruolando la legge scientifica: una scienza-ideologia, essa pure idolatrica, elevata al rango di metafisica. «La gestazione per altri», apprendiamo dalle sue parole, «è la risposta della scienza al bisogno di famiglia, è una difesa della famiglia, che va protetta dalla violenza contro le donne, dal femminicidio, dalla sordida prepotenza domestica, non dalla scienza». È una Scienza in senso forte, non più strumento di cui si può fare buono o cattivo uso bensì una specie di religione secolare incaricata di realizzare, ancora una volta, i desideri dell’uomo, quali che essi siano. Si potrebbe parlare a lungo della parabola che ha portato un comunista come Vendola a trasformarsi, alla soglia dei sessant’anni, in un piccolo filisteo disposto a procurarsi un figlio on demand.
Ci preme assai di più, tuttavia, sottolineare la differenza tra un figlio generato nella carne, per vie naturali, nato dall’unione sessuale di un uomo e di una donna, e un figlio generato in laboratorio.
La differenza tra un figlio concepito “naturalmente” e uno concepito “artificialmente” non è affatto di poco conto. È imposta dalla dinamica stessa della filiazione. Un figlio naturale non ci appartiene. Ci viene dato (che è come dire “donato”) dai decreti imprevedibili di entità ignote come Dio o la natura.
Tutt’altro discorso per un figlio “prodotto” in qualche laboratorio (dopo averne specificate in anticipo le caratteristiche) e “incubato” per giunta nell’utero di un’altra donna. A differenza del figlio-dono, un figlio-prodotto proviene da un luogo assai più noto. Quel luogo originario non ci è “dato”, tutt’altro. Nessuno “riceve” un figlio-prodotto. Piuttosto ce lo siamo «dati» da noi stessi: è il prodotto del nostro sforzo, del nostro investimento (nel senso economico della parola), del nostro iter burocratico-amministrativo, del know-how bioingegneristico, altamente specializzato, di cui usufruiamo dietro remunerazione. Sul bimbo-prodotto vantiamo – sul piano psicologico, prima ancora che giuridico – diritti di proprietà che possono benissimo indurre, perché no?, a esercitare nei suoi confronti il diritto di recesso. I più avveduti ricorderanno quella coppia di lesbiche americane che aveva fatto causa alla banca del seme perché la bambina nata dall’inseminazione artificiale era uscita nera anziché bianca. Colpa di uno scambio di sperma: la “merce” non corrispondeva alle specifiche del prodotto ordinato. Logico che il cliente abbia pensato a chiedere il rimborso.
Una tale svalutazione dell’essere umano è concepibile solo alla luce di quella rozza mentalità – squisitamente neoborghese – che il filosofo del diritto Pietro Barcellona (1936-2013) ha denominato come “individualismo proprietario”. L’individualismo proprietario (o possessivo) è quell’approccio esistenziale orientato alla “universale appropriabilità” di tutto quel che viene prodotto capitalisticamente. Centro di tutto, in questa prospettiva, è «l’individuo come soggetto di bisogno e come desiderio di possesso illimitato» (Vendola assume per l’appunto l’orizzonte del bisogno e del desiderio senza limiti). Nello stesso tempo, il concetto di proprietà privata(cioè «la disponibilità delle cose ad essere possedute, trasformate e consumate») diventa la norma di funzionamento della società intera e della relazioni umane.
Per l’individualista proprietario il mondo è solo un insieme di cose: gli altri soggetti cessano di essere fini in se stessi, riducendosi a non essere altro che puri strumenti o ostacoli. Neppure ha più senso parlare di doveri morali nei loro confronti. Tutto appare come quantificabile, e pertanto negoziabile, inclusi i corpi individuali.
Ciò è tanto vero che la differenza tra figlio-dono e figlio-prodotto non sfugge nemmeno agli apologeti della maternità surrogata. Lo mostra la forzatura linguistica con cui tentano di inquadrare anche questa opera di “produzione umana” nel registro del dono, allontanando con ogni mezzo lo spettro dello sfruttamento. La Rochefoucauld osservava che l’ipocrisia è un omaggio reso dal vizio alla virtù. Anche l’egoismo per accreditarsi è costretto a prendere in prestito il linguaggio dell’oblazione disinteressata. Tutta l’intervista di Vendola è infatti un disperato (e ipocrita) tentativo di assimilare la compravendita dell’utero e degli ovuli a una donazione altruistica. L’arrivo di Tobia è stato festeggiato, ci dice Nichi, «come un dono di Dio». Coerente con questo scenario è anche lo sforzo volto a mostrare che la madre gestatrice ha ospitato la vita di Tobia «in un incantesimo d’amore», l’insistenza sulla nazionalità e sulla relativamente giovane età sia della donatrice che della portatrice (26 e 29 anni, americane, non due povere donne del terzo mondo), infine la chiusa sul quartiere residenziale dove la gestatrice vive con la propria famiglia («Ti sembrano poveri?», chiede al giornalista di Rep).
L’ipocrisia regna sovrana e si finisce per scadere nel grottesco nel momento in cui, a domanda precisa dell’intervistatore («Ma quanto avete pagato?»), Vendola si fa vagamente reticente, non lasciandosi sfuggire una cifra una: tutto è ridotto a una specie di rimborso spese per il percorso dell’utero in affitto (ricovero, medicine, assenza lavorativa, abiti prémaman), unito a un modesto compenso per la famiglia della madre gestatrice. Ma di quantificare in moneta sonante non se ne parla. Si può ben capire l’imbarazzo: difficile in effetti conciliare la ricca compravendita di un essere umano con una immagine da difensore dei dannati della terra.
Se c’è qualcosa che atterrisce, nel nostro tempo, è la progressiva scomparsa del figlio-dono, sostituito dal figlio-cosa, dal figlio-merce, dal figlio-prodotto. È precisamente questa retrocessione a “cosa” a fare problema. La logica inerente alla generazione programmata di esseri umani fa della nascita non più un dono, ma un prodotto non più vincolante di altri prodotti. Nulla vieta pertanto che dei genitori-acquirenti, insoddisfatti del figlio-merce commissionato a un’azienda erogatrice di “servizi riproduttivi”, aspirino a rimandarlo al mittente.
Questa dinamica spersonalizzante è tanto invasiva che neppure la lingua di legno riesce a cancellare del tutto la realtà: nell’incipit del colloquio Vendola paragona il piccolo Tobia Antonio (che porta il cognome del compagno, Testa) a un novello Pinocchio. Vale la pena riportare per intero le parole dell’ex leader di Sel: «C’era una volta un pezzo di legno e due Geppetto. Ti presento Tobia Antonio Testa, figlio di due papà». Una immagine che lascia una sensazione raggelante, come se quel piccolo esserino non fosse altro che nudo materiale nelle mani di due artefici anziché una personalità a se stante. Mai come in questo caso parole come “amore” e “altruismo” si rivelano la maschera di uno smisurato egoismo.
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