Il vero nocciolo del problema non è nell’essere comprensivi o nel tenere il punto nei principi. Lo scrittore Giorgio Ponte ha espresso ancora una volta il suo pensiero, senza paura, né preconcetti.
Quando si parla di “Chiesa in ascolto”, questa espressione dovrebbe essere intesa in senso letterale e universale. È importante, indubbiamente, ascoltare chi, rispetto alla Chiesa è estraneo o ai margini ma, a maggior ragione, è fondamentale ascoltare chi ne fa parte e vuole offrire una testimonianza forte.
Troppi tabù sull’omosessualità
Il tema dell’omosessualità nella Chiesa, ad esempio, è complesso e delicatissimo: il fatto stesso che se ne debba parlare con grande cautela non è in contraddizione con il fatto che bisognerebbe evitare inutili tabù.
Ne ha parlato in varie occasioni e lo ha ribadito in un suo recente video, lo scrittore, insegnante e blogger Giorgio Ponte. Otto anni fa, la testimonianza di Ponte fu una vera bomba a orologeria che fece deflagrare un certo “politicamente corretto” tuttora persistente anche in ambiente ecclesiastico. Lo scrittore, ai tempi ancora poco noto, raccontò la propria storia personale di omosessuale, a difesa della famiglia naturale e della Chiesa.
In un video postato sul suo canale YouTube Liberi di amare, Ponte ha messo in luce un aspetto peculiare della questione che, a dire il vero, non si riferisce solo all’omosessualità ma a qualunque altra esperienza di vita “non banale”.
“Mi sono reso conto che all’interno delle comunità ecclesiali, ci sono tabù che impediscono a queste storie di vita stupende di essere raccontate”, ha detto lo scrittore.
Ponte ha quindi accennato alle cosiddette “terapie riparative”, le quali, contrariamente ai luoghi comuni, non implicano il passaggio all’eterosessualità (che pure, in non pochi casi, si verifica), bensì un impulso alla conoscenza di se stessi “che ti permette di scoprirti come uomo o come donna”, affrontando a viso aperto le proprie ferite interiori.
Storie di persone che un tempo erano convintamente omosessuali e oggi sono felicemente sposate con persone dell’altro sesso, “in Italia e in ambito cattolico” si contano sulle dita di una mano, se parliamo di testimonianze pubbliche. In realtà, assicura Ponte, i casi di questo tipo sarebbero “centinaia”, mentre nelle “chiese protestanti”, in particolare negli Stati Uniti, vicende analoghe “fioccano” e vengono diffuse con molta più facilità.
Quando il sacerdote diventa “pericoloso”
Può capitare che l’omosessualità faccia parte del vissuto di molti sacerdoti o religiosi. Ciò, sostiene Ponte, può derivare dal “tantissimi anni di cattiva gestione della formazione dei religiosi”, conseguente al fatto che tanti giovani sono stati messi, più o meno esplicitamente, di fronte a un bivio: sposarsi o farsi prete (o suora). Con il risultato che molti hanno finito per ragionare in questo modo: “Non mi posso sposare perché non ho attrazione per l’altro sesso, quindi, inevitabilmente dovrò fare quella vita là [religiosa o sacerdotale, ndr]”.
“Così, inevitabilmente i conventi si sono riempiti di persone che non avevano un’affettività risolta”: molti hanno scelto questo tipo di vita “solo per avere uno stipendio garantito” e, a volte, conducono una ‘doppia vita’ sotto gli occhi di tutti.
Altri, invece, pur avendo una “vera vocazione”, sono diventati “schiavi di comportamenti compulsivi”, non avendo “trovato nessuno che potesse aiutarli, perché non stanno in un contesto dove si può parlare liberamente”.
Sacerdoti o religiosi con un vissuto del genere sono spesso percepiti come “pericolosi”, poiché, se si prendono la libertà di parlare della propria storia personale, potranno anche prendersi la libertà di “denunciare tutte le storie poco pulite” che sono intorno a loro.
Lo stereotipo da Gay Pride è dietro l’angolo
Con tutte le differenze del caso, lo stesso discorso vale per le parrocchie e per i laici. Anche in questi ambiti, i catechisti o i responsabili di comunità tendono a scoraggiare le testimonianze, con la scusa che “la gente non capirebbe”.
I percorsi personali di vita e di fede magari sono incoraggiati e apprezzati ma si preferisce tenerli nascosti. I rischi sono di due tipi: si può essere viziati dal pregiudizio di identificare l’omosessuale con lo stereotipo del partecipante al Gay Pride, “poi si trova l’amico che è omosessuale e si fa fatica a mettere insieme le due cose”.
Il rischio opposto è quello di essere talmente condizionati dalla mentalità del mondo che, “pur stando all’interno della Chiesa”, nel momento in cui qualcuno confida la propria attrazione omosessuale, invece di essere sostenuto nel proprio retto cammino di vita e di fede, si sente dire: “Vivi la tua vita, sii libero e vai a letto con chi vuoi”.
Non testimoniare è dannoso
L’essere impediti a fare testimonianza della propria vita, rischia di danneggiare le persone con tendenze omosessuali in tre modi. In primo luogo, “se non sono libero di parlare della mia storia personale nella mia comunità, cercherò altri luoghi dove farlo”: è facile allora finire nel giro dell’“Arcigay” o di qualsiasi altro circolo LGBT+.
Il secondo motivo per il quale, il silenzio può diventare dannoso è perché “aumenta il senso di inferiorità”. Ognuno, invece, argomenta Ponte, dovrebbe essere consapevole che il proprio vissuto personale “non è una storia di cui vergognarmi”, quindi “finché non raccontiamo la nostra storia, continueremo a pensare che non siamo degni d’amore”.
Reprimere la testimonianza è dannoso, infine, in quanto “priva la possibilità per le persone di farsi dono per gli altri”, secondo quella logica di oblazione che è spiccatamente cristiana.
Appello di un laico ai pastori
Per concludere, Giorgio Ponte rivolge un appello a tutti i sacerdoti, catechisti e responsabili di comunità che, “in buona fede” preferiscono mantenere la discrezione sui trascorsi dei loro figli spirituali per “proteggerli da ogni male gli possa accadere nel mondo”.
“Non facciamo il bene delle persone che ci sono affidate se non diamo loro la possibilità di stare a testa alta con la loro storia di fronte agli altri”, ha detto il videoblogger.
Testimoniare aiuta le persone “ad essere forti e ad avere la capacità di condividere quanto Dio ha fatto per loro”. Raccontare pubblicamente “la meraviglia che il Signore ha fatto nelle nostre vite, proprio a partire dalle cose che ci hanno fatto soffrire” è un nostro “diritto” ma, come afferma San Paolo, abbiamo anche “il dovere di rendere ragione della fede che ci è stata affidata”. Senza per questo dover temere le eventuali accuse di “omofobia” o qualunque altra forma di persecuzione.