Ricercare la gloria non è una forma di vanità, è anzi il massimo dell’umiltà. La ricerca della gloria è sana, è un appetito naturale. Gloria e umiltà, spesso contrapposte, sono invece intimamente legate.
Lo spiega Fabrice Hadjadj, scrittore e filosofo. Nato in una famiglia ebrea di origini tunisine, nel 1998 si è convertito al cattolicesimo davanti a una statua della Vergine Maria, nella chiesa di Saint-Séverin a Parigi. Dirige l’Istituto Philantropos di Friburgo. È appena uscito in italiano (per la vicentina Berica Editrice) il suo libro A me la gloria.
Pensate che non si possa andare a caccia di gloria senza accantonare l’umiltà? I momenti di gloria vi mettono a disagio? Come darvi torto? L’umiltà sembra una virtù più cristianamente corretta. Eppure è una ben strana umiltà quella cristiana. Dom Jean-Baptiste Porion, certosino di La Valsainte, diceva infatti: «La più grande umiltà sta nell’accettare di diventare Dio». Per non parlare della celebre formula di S. Ireneo di Lione: «La gloria di Dio è l’uomo vivente, e la vita dell’uomo consiste nella visione di Dio». Il cristiano ricerca la gloria divina, e così facendo risplende di quella stessa gloria – e la riconosce nelle opere di Dio. Per cui arriviamo al paradosso che per l’uomo la più grande umiltà coincide con l’accettare di essere glorificato da Dio.
A soffermarsi su questo paradosso è la penna meravigliosa di Fabrice Hadjadj, filosofo, saggista, drammaturgo (e pure cantante). E lo fa in un libro, uscito in questi giorni in edizione italiana per Berica editrice, intitolato A me la gloria.
Hadjadj lo confessa fin dalle prime pagine: desidera la gloria. Come tutti noi del resto… Ma coltivare un tale desiderio non equivale forse a cadere nella vanità? Per nulla. Tutto il libro, nato da tre conferenze tenute nella Quaresima del 2019 su richiesta del vescovo di Sion, in Svizzera, è un’ode alla gloria che, lungi dall’opporsi all’umiltà, la presuppone. E il bello, come fa giustamente notare quel formidabile battutista che è il mio amico Giuseppe Signorin, curatore del libro (tradotto dal sottoscritto), è che lo fa senza nominare neanche una volta Umberto Tozzi, cosa già notevole.
Hadjadj riabilita così la ricerca della gloria come rimedio al regno dell’utilitarismo e come celebrazione della vita sotto tutte le sue forme. Del resto la gloria è onnipresente nella Bibbia, che siano i Salmi o il Vangelo. «La gloria è essenziale al cristianesimo e alla Rivelazione biblica», spiega lo scrittore francese a Aleteia.
Il filosofo distingue la gloria cristiana da quella pagana, che ignorava l’umiltà, virtù specificamente cristiana. E al tempo stesso tiene a sottolineare che l’umiltà cristiana non è una semplice negazione di sé. Se così fosse il cristianesimo non sarebbe altro che un nichilismo religioso, come accusava Nietzsche: un desiderio di gloria vergognoso, camuffato sotto mentite spoglie, oppure una strategia dei deboli per soppiantare i forti. In sostanza, una forma di ipocrisia.
Nulla di tutto questo: «Niente è più sano della ricerca della gloria, perché si tratta di un appetito assai naturale», confessa Hadjadj a Le Figaro aggiungendo: «E nemmeno c’è qualcosa di più umile. Perché non c’è gloria senza un altro che ci renda gloria». E ancora: «Non possiamo essere gloriosi senza qualcun altro più grande di noi».
Come si legge nel libro: «La logica della gloria in sé implica sempre umiltà e generosità. Umiltà, perché ricevo sempre da un altro la mia gloria. Generosità, perché la mia gloria reclama che altri siano gloriosi».
Anche il mondo pagano (i Romani ad esempio) ricercava la gloria. Ma ne faceva un idolo, scambiando per Dio quello che poteva essere solo un dono di Dio. Da qui la sete di conquista per la gloria di Roma. In tal caso, criticava S. Agostino, la passione della gloria finiva per prevalere sulla giustizia e sull’amore, rivelandosi piuttosto un «vizio nemico della fede».
La differenza, direbbe De Gregori, salta agli occhi: la gloria pagana è un obiettivo da conquistare, mentre quella cristiana è un dono da accogliere. Di tutt’altra pasta infatti la gloria cristiana dove più ci si innalza, più si sente la mano che ci ha innalzati. È quello che Gustave Thibon ha definito il paradosso dell’umiltà: «La coscienza della caduta cresce in funzione dell’altezza a cui si è ascesi. Più ci innalziamo, più sentiamo di essere caduti».
L’innalzamento per un cristiano è un dono proveniente dall’alto (ma anche da chi ci ha preceduti) e che supera immensamente i nostri meriti. Come nel Magnificat, dove la più gloriosa e benedetta fra tutte le donne, la Vergine Maria, innalzata al di sopra degli angeli riconosce simultaneamente di essere un’umile serva («Il Signore ha guardato l’umiltà della sua serva») nella quale il Signore ha compiuto «grandi cose».
Eppure anche i pagani lo avevano intuito: il poeta Pindaro, colui che definiva l’uomo «il sogno di un’ombra, celebrava al tempo stesso le prodezze degli atleti e i doni degli dèi. Sapeva infatti che «la vittoria non dipende dagli uomini, è la divinità che la dona». Per questo nulla rende (o dovrebbe rendere) più umili della vittoria. Per stare ai tempi nostri, pensiamo alle esultanze dei goleador dopo una rete.
Anche un dio greco dell’area di rigore come Cristiano Ronaldo esulta perché sente, intimamente, che il goal non è interamente dipeso da lui: sarebbe bastato un nulla perché il tiro fosse respinto dal palo o dal portiere, perché un soffio di vento o il piede del difensore deviasse la traiettoria del pallone. Ecco perché i campioni cadono in ginocchio, si fanno il segno della croce, rivolgono lo sguardo al cielo. I veri eroi – come i veri campioni – avvertono nel profondo che le loro vittorie hanno qualcosa di contingente, che potevano esserci come non esserci. Sanno che non tutto è dipeso da loro, come se fossero i beneficiari della fortuna – o del dono di una misteriosa Provvidenza.
In nessuno più che in Maria si realizza il celebre avvertimento di Gesù: «Chi si innalzerà sarà abbassato e chi si abbasserà sarà innalzato» (Mt 32, 12). Si tratta sempre di essere innalzati, ma da una mano divina. Un fatto che ha delle dirette conseguenze anche in campo politico. D’ora in poi la gerarchia sarà quella del servizio, non quella del dominio. «Il potente non è chi ha bisogno di schiacciare il prossimo e di servirsene come un marciapiede per il proprio podio – ci ricorda ancora Hadjadj -: è chi è capace di scendere per soccorrerlo e fargli il dono di donare a sua volta. Allo stesso modo, il glorioso non è chi abbaglia, ma colui che illumina».
Non per nulla Gesù invita i cristiani a essere la «luce del mondo». Una luce che non acceca – o un fuoco che non fa fumo – e non brilla di luce propria. Come la lampada che il Signore ci esorta a non lasciare sotto il moggio.
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