Chi non è spaventato dall’idea della morte? La testimonianza senza tempo del Santo di Assisi, ci apre uno spiraglio di luce che ribalta ogni timore.
“Morte e vita si sono affrontate in un prodigioso duello”, recita un celebre canto pasquale: un duello che Gesù, Signore della vita, ha vinto pienamente. La sua vittoria è quella gioia che si riverbera sul cristiano e che ogni cristiano è chiamato a vivere. Nel libro “Etica della Vita e della Morte in san Francesco D’Assisi”, Fra Antonio Luigi Gerundo affronta magistralmente il tema di questi due poli opposti, dove a fare da sfondo si staglia la figura sempre attuale del Poverello d’Assisi. Egli che visse, e persino morì, “cantando”. Chiediamo innanzitutto a Fra Antonio Luigi Gerundo:
In che modo oggi, San Francesco d’Assisi è un modello che ci insegna pienamente a vivere e a morire?
“Oggi c’è la desacralizzazione della morte: è quasi come se oggi la morte “non dovrebbe esistere”, e si vive con questo grande tabù, senza rendersi conto che la vita sulla terra di un cristiano è come un segmento, che ha un inizio e una fine. Il messaggio che io voglio trasmettere è proprio quello che ha fatto Francesco d’Assisi.
Nel Medioevo chi moriva a 40 anni era come se avesse 80 anni oggi. San Francesco morì a quell’età, quindi nulla di strano: la particolarità è che lui ci ha dato delle modalità di come vivere e come morire, per questo nel mio libro l’ho definito “profeta del futuro”, perché nel 1200 ha anticipato molto di quello che oggi si vive.
Nella vita di una persona, se è ben armonizzata dal suo nascere al suo morire, allora tutto è positivo. Se si riesce ad affrontare anche il fatto di andare un giorno incontro alla morte, con le sue ansie e i suoi dolori, allora si vive bene. Se invece questo passaggio manca, subentra una dissonanza. Si vive ma si va in cerca sempre di benessere, di ricchezza, di assenza di malattie, di prosperità, e tutto il resto deve essere scartato. Questo atteggiamento oggi largamente diffuso, è come un laicismo a 360°, per cui si è cristiani ma lo si è veramente”.
San Francesco parlava di “sorella morte”. Alla luce di quali considerazioni, ma soprattutto di vissuti, di modalità di incontro vero con Dio, è possibile definirla tale?
“San Francesco, chiamando “sorella” la morte, lo fa perché aveva ben capito che un cristiano fa esperienza di Dio se unisce la dimensione umana a quella spirituale. Nel Cantico delle creature umanizza tutti gli elementi che fanno parte del cosmo e della vita. Lui sentiva la morte sorella perché era una compagna di vita, e si preparava ad essa perché la morte era quella porta che lo introduceva in quella realtà dove aveva sempre sperato di arrivare.
Lo stesso aveva fatto nel Cantico delle creature, chiamando “madre” la terra, “sora luna”, familiarizzando con tutto: “frate vento”, “sorella cicala”… La realtà cosmica per lui era una realtà familiare. La stessa vita per lui era così. Negli ultimi istanti della sua vita chiede solo scusa a “frate asino” di averlo un po’ bistrattato, riferendosi al suo corpo. Questa è l’umiltà in Francesco. Quando un frate gli chiede: Perché a te Francesco? perché tutte a te? Lui gli risponde: “Perché sono un verme”. Nella sua umiltà si è stimato sempre come uno stupido, un nulla”.
Nel Medioevo “l’esistenza umana era considerata un atto miserevole. La nascita: il venire al mondo, veniva considerato un evento da commiserare”, citando il suo libro; questo a causa della condizione di sofferenza e di peccato in cui l’uomo di quel tempo percepiva fortemente di essere immerso. Com’e cambiato oggi questo concetto e cosa la modernità va ad aggiungere e/o a togliere a questa concezione?
“Nel Medioevo c’era la concezione che quando un uomo veniva alla luce, avesse già un contatto diretto con la morte. Pensiamo alla diffusa mortalità infantile, alle guerre, alle pestilenze… Dunque il cristiano, il fedele, l’uomo, era in contatto continuo con la sofferenza. San Francesco ha subito assimilato questo, perché quello era il tempo che gli ha dato i natali. Oggi cosa è cambiato? Niente.
Quando io nel libro parlo di peccato, non intendo il peccato in sé come peccato, ma come infelicità dell’uomo. Oggi il peccato è proprio questo: l’infelicità dell’uomo. L’essere umano oggi è insoddisfatto, chiuso, ingabbiato in questa ricerca di benessere continua. Ad esempio, l’uomo questa pandemia non l’ha vissuta come qualcosa da capire e dalla quale imparare, ma come qualcosa che ha bloccato il suo modo di essere egoista. Non abbiamo capito niente di questa pandemia. Continuiamo ancora oggi a piangere su noi stessi: ecco il nulla, il peccato.
Nel Medioevo la concezione del peccato era molto forte; anche la stessa morale del medioevo, se c’è una morale, è molto diversa da quella di oggi. Questa concezione di “tutto è peccato” veniva vissuta come fosse una dittatura, ed è Francesco che rivoluziona tutto questo.
Nel capitolo Terzo, dove ho parlato dei fini etici, volevo precisare che parlare di una questione etica nel Medioevo è assurdo, perché non esisteva questo tipo di pensiero. Se noi andiamo a vedere come è vissuto Francesco, pur non conoscendo questa disciplina, perché è dagli anni ’60 ad oggi che si sente parlare di etica o bioetica, Francesco l’ha vissuta in pieno.
Noi abbiamo i primi scritti etici passando da Bonaventura, Antonio da Padova, fino ad arrivare ai giorni nostri. Francesco l’etica non la conosceva affatto, eppure è stato un maestro d’etica, usando però i termini che all’epoca erano “peccato”, “fare la volontà di Dio”, “quello che a Dio non piace”… Oggi è chiamato diversamente quello che è etico o non etico, quello che prima invece veniva definito come “peccato” o “non peccato”. San Francesco ciò che diceva lo viveva; l’amore lui ce lo ha avuto da quando è nato a quando è morto, l’amore verso tutto”.
Il Cantico delle creature ci porta a considerare la vita sotto l’aspetto della lode. Quali sono gli elementi indispensabili secondo il Santo per viverla come tale?
“C’è stato un momento storico particolare della vita di Francesco, in cui gli sembrava tutto buio. Aveva fondato l’Ordine Francescano, ma il numero dei frati gli pareva elevato, c’era chi voleva i conventi, chi non li voleva… c’erano delle contese. Accade degli ultimi tre anni della sua vita, quando Francesco ha iniziato ad assaggiare lo scoraggiamento. Ha cominciato a porsi la domanda: ho fatto bene o ho fatto male? Si ritira in una cella a San Damiano, in meditazione. Un personaggio, fondatore di un ordine, ormai messo ai margini, ammalato, cieco, pieno di dolori.
Quando Francesco si è ritirato nella cella a San Damiano, il Celano sottolinea che San Francesco era infastidito da una continua invasione di topi, che lo andavano a mordicchiare. Questi “topi” non erano veri e proprio topi, ma erano i frati che lo venivano a infastidire, chiedendogli della regola, e non gli lasciavano tregua.
In questo contesto di sfiducia in sé stesso, demoralizzato, pieno di patologie, cieco, ormai chiedendosi cosa avesse fatto della sua vita, lì, a tutta questa negatività che c’era, storicamente documentata, San Francesco risponde scrivendo il Cantico delle creature. “Altissimu, onnipotente, bon Signore, tue so’ le laude, la gloria e l’honore”, intona. Francesco esplode nella gioia e nella lode, ringraziando il Signore e ringraziando il creato”.
Il mistero del peccato e della sofferenza: in che modo San Francesco ci ha insegnato ad “scansare” l’uno per abbracciare in maniera meno dolorosa, in un certo senso, l’altra?
“Se consideriamo il peccato come sofferenza, non ne usciamo più. Se invece pensiamo al peccato come un incidente di percorso, dove cadi e ti rialzi, vale la stessa cosa per la sofferenza. Oggi hai un mal di testa? Domani non ce l’avrai. Riuscire ad andare oltre gli schemi però è molto difficile.
Noi non siamo più liberi, se prima infatti c’era il peccato e il tabù della sofferenza, c’era però più libertà, anche di scegliere: oggi come oggi siamo pilotati a 360° da tante cose, cominciare dalla comunicazione. Ora c’è una libertà non-libertà. La libertà oggi è libertinaggio, un concetto ben diverso. La libertà, il termine stesso di “libertà” va oltre il libertinaggio.
Molti hanno detto che in questo periodo di pandemia non si sono sentiti liberi. Io, seppure chiuso in convento, durante la pandemia mi sono sentito libero, già dalla mattina quando vedevo il sole sorgere. Poi vedevo i camion che partivano con le bare, e pensavo: ho potuto vivere un’altra giornata, anche se la paura c’era. La gente invece aveva paura perché non aveva libertinaggio. E invece, appena è stata data data appena un po’ più di libertà, si è subito ritornati alla seconda, terza, quarta ondata…”
La vita di San Francesco, nella sua gioiosità e freschezza è un inno di vittoria della vita sulla morte. Cosa direbbe oggi a tutti noi, nel contesto di dolore e difficoltà attuale, e cosa consiglierebbe in particolare ai giovani?
“I giovani di oggi li chiamo “piatti vuoti”. Sono belli da vedere, ma sono vuoti; vuoti perché è mancato qualche passaggio. Prima ogni quindici anni c’era dello scarto generazionale, ora tra un anno ed un altro.
La figura di Francesco è quella di un personaggio medioevale, e quando parliamo di medioevo parliamo di una personalità chiusa. Prendiamo però i giovani di oggi a paragone con Francesco: chi è più medioevale, un giovane di oggi o Francesco? Francesco, oltre ad essere più libero, era più aperto. Oggi i giovani sono chiusi. Non sono aperti alla novità, che sia positiva o negativa. Invece vivere è affrontare la vita nei momenti belli e i momenti brutti.
Fiorella Mannoia nella sua canzone “Che sia benedetta” benedice la vita: se facciamo un’analisi di quella canzone, lì la vita viene benedetta che sia triste o che non lo sia. È un cantico del Ventunesimo secolo. Non so se la Mannoia viva quello che dice in quella canzone: Francesco di certo lo viveva. I giovani, oggi come oggi, non lo so. Ad oggi i miei nipoti mi dicono che ho una mentalità medioevale. Io dico: magari. Sarei molto più libero”.
Elisa Pallotta