Convento di clausura troppo social? Rimossa la madre superiora: qualcosa non torna

È rimbalzata su tutti i media, la notizia di un convento di clausura troppo “social” per la Santa Sede, con tanto di braccio di ferro con le suore. 

Una vicenda che lascia un po’ perplessi e spinge a chiedersi se il rischio non sia quello di perdere di vista ciò che davvero è essenziale nella vita non solo religiosa.

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In generale nella vita di ogni cristiano, nella quale parole come autorità e obbedienza hanno un significato ben preciso.

Suore di clausura troppo social?

Sui principali quotidiani nazionali tiene banco la vicenda di un convento di clausura in provincia di Siena, dove le suore si starebbero opponendo alla rimozione della madre superiora decisa dal Dicastero vaticano per gli Istituti di Vita Consacrata e le Società di Vita apostolica con un apposito decreto.

All’origine della decisione della Santa Sede ci sarebbero alcune attività delle suore. Si parla di mercatini dove sarebbero stati messi in vendita, tra le altre cose, candele, gadget, prodotti agroalimentari. Ma sotto la lente sarebbe finito anche un eccessivo attivismo sui social rispetto al regime della clausura, con tanto di sito web e pagina Facebook attraverso i quali le suore avrebbero offerto ospitalità ai pellegrini all’interno del proprio convento.

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Il pericolo della spettacolarizzazione

Non è il caso di entrare troppo nel merito di una vicenda che potrebbe essere stata tranquillamente distorta o enfatizzata oltre modo dai giornali. Ci interessa di più la sua spettacolarizzazione, che restituisce l’immagine di una chiesa più simile a quella di un estenuante braccio di ferro tra fazioni in competizione tra loro. E non certo quella di una sinfonia dove ogni nota ha il suo posto nello spartito.

Insomma, la lettura prediletta dalla carta stampata, che costruisce le sue fortune sulle divisioni e le liti, alimentando così il gossip e la curiosità malsana dei suoi lettori. Un ego-dramma, in sostanza, non un teo-dramma. Vale a dire una storia dove siamo noi a scegliere il posto dove dobbiamo stare, la parte che dobbiamo recitare. Per un cristiano invece la vita dovrebbe essere un teo-dramma. Una storia dove siamo sì i protagonisti, ma di un racconto scritto da un Altro: un teo-dramma appunto, dove ciò che conta è trovare la propria parte all’interno della storia e recitarla fino in fondo. In altre, parole quella che si chiama vocazione, missione.

Purtroppo va detto che in vicende come queste di tutto si parla meno che della missione – importantissima, indispensabile, decisiva – di una suora di clausura, vero cuore pulsante e orante della Chiesa.

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L’equilibrio che manca

Di recente abbiamo avuto l’opportunità – o, meglio, la grazia – di poter ascoltare la predicazione di don Antonio Mattatelli, l’esorcista “allievo” di padre Amorth. Il quale ci invitava a riflettere sulla mancanza di equilibrio che sembra regnare oggi nella Chiesa. Dove da un lato c’è chi ha nostalgia del Vaticano I, mentre dall’altro c’è che chi sogna perfino un Vaticano III. Peccato che nel frattempo tutte e due le fazioni si dimentichino che c’è stato il Vaticano II…

Anche nel campo dell’obbedienza ci sono questi estremi. Per qualcuno l’obbedienza è nulla, per altri invece l’obbedienza è tutto (una specie di idolo). Per gli uni l’obbedienza non è mai (stata) una virtù, per gli altri lo è sempre, a prescindere. In un caso come nell’altro si è perso il vero senso dell’obbedienza. Forse perché si è perso il vero senso dell’autorità.

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Quando l’autorità serve davvero

Qualcuno ha detto che l’autorità è meno di un ordine e più di un consiglio. Potremmo dire che è un consiglio da prendere molto sul serio, visto che viene da qualcuno che è stato posto più in alto di noi. Ma da un qualcuno che, attenzione, è lì in alto per far crescere anche noi. Autorità infatti viene dal latino augere, «accrescere», «far crescere». Un’autorità è liberante solo quando ci fa crescere.

Questo vale in tutti i campi, anche in quello spirituale. Solo così ha senso l’obbedienza (da ob audire, «obbedire verso») che non è altro che prestare il nostro ascolto a chi ha autorità. Dunque l’obbedienza è un tendere l’orecchio verso chi può farci crescere. Anche se dovesse stiracchiarcelo un po’, ma non al punto di farci diventare sordi.

In altre parole, nessun superiore potrà comandarci di fare ciò che è chiaramente un male: non potrà dirci di uccidere, di rubare, di mentire, di suicidarci, ecc. Non potrà mai chiederci di intossicarci col veleno del peccato. Il resto è questione di opportunità, di giudizio prudenziale, di vedere se quella particolare opera di carità, in quel particolare momento, sia la più adatta alla nostra crescita personale. O se, viceversa, vada abbandonata. La storia degli ordini religiosi mostra a sufficienza come talvolta una pianta vada potata affinché più avanti possa dare frutto. In casi come questi, come dice Costanza Miriano, obbedire è meglio.

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Farci guardare verso l’alto: non è un optional!

Ecco, la vera autorità non è quella che schiaccia la persona: è quella che la fa crescere, che la fa fruttificare. In altri termini, chi ha autorità deve (ripeto: deve) farci guardare verso l’alto. Non è un optional: è il suo preciso compito. La sua missione.

Ma questo è possibile solo in un mondo in cui si riconoscono dei princìpi e degli scopi comuni verso i quali dobbiamo tutti tendere. Un’«altezza» verso la quale tutti dobbiamo elevarci. Che nel caso dei cristiani non è un’astrazione, ma un Dio personale: Cristo Gesù.

Non è tutto: un cristiano sa anche che che da solo non ce la può fare: non basta il suo sforzo. Serve un aiuto: quello della grazia divina, prima di tutto, ma anche dell’autorità che è lì al nostro servizio. Per aiutarci a crescere: a questo serve, questa è la sua natura.

La domanda allora è: dove sono andate a finire autorità e obbedienza in questa storia? Ci fa guardare verso l’alto o ci attira verso il basso, facendoci sguazzare nel chiacchiericcio che piace tanto ai media?

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Ne valeva la pena?

In tutta questa vicenda c’è da chiedersi, in conclusione, se semplicemente ne valeva la pena. Valeva la pena finire sulle prime pagine dei giornali facendo passare la Chiesa come una realtà retrograda, ostile ai moderni mezzi di comunicazione?

La Chiesa che tra i suoi santi e testimoni più venerati ha pionieri della comunicazione come San Francesco di Sales (patrono dei giornalisti e precursore della carta stampata), il Beato Giacomo Alberione, San Massimiliano Maria Kolbe? Per non parlare di quello che forse è stato il più grande telepredicatore (e radiopredicatore) di sempre, cioè il vescovo (e prossimo beato) Fulton Sheen.

Come se poi oggi non ci fossero religiose, anche di clausura, che usano i social (in accordo coi superiori naturalmente) per il bene spirituale di tante anime.

I punti di domanda, per quel che ci riguarda, sono questi.

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