Nelle prossime settimane capiremo come il governo avrà intenzione di monitorare l’andamento del contagio, e l’idea è quella di tracciare i contatti attraverso l’app Immuni.
Molti però si chiedono in realtà chi ci sia dietro questa app di tracciamento, che dovrebbe essere operativa già a metà del mese di maggio e che il Ministero per l’innovazione tecnologica e la digitalizzazione guidato da Paola Pisano ha affidato alla società Bending Spoon, sviluppatori mobile del Centro medico Santagostino.
Perché dovremmo fornire i nostri dati personali a società che non conosciamo? Come verranno usati? Quando durerà questa invasione della privacy da parte dell’autorità pubblica? Insomma, le domande sono tante e legittime, e la paura di un moderno e reale Grande Fratello è dietro l’angolo.
Nelle prossime settimane capiremo se veramente l’app Immuni sarà utile per combattere il coronavirus, o possa in realtà diventare uno strumento legato ad altri fini di altra natura. La questione riveste perciò forti componenti di carattere etico e morale.
A provare a rispondere a questi quesiti, ci ha provato il francescano Paolo Benanti, docente di Teologia morale ed etica delle tecnologie alla Pontificia Università Gregoriana e accademico della Pontificia Accademia per la Vita, parlando con il Sir, l’agenzia stampa della Cei.
“Per comprendere quindi se si tratta di uno strumento utile per la società oppure no, è necessario prima rispondere a tre domande: chi, come e quando”, ha detto Benanti. Chi, ovvero chi sta dietro all’applicazione, che dovrà servire l’interesse di tutti e non di privati. Come, in che modo avverrà questo tracciamento e a che scopo.
“Se capiamo che i dati che diamo alla collettività, cioè a questo sistema, servono per curarci meglio come una sorta di tassa che versiamo per la nostra salute, è una cosa. Se invece questo diventa un esproprio da parte di un soggetto per fare business, allora è ben altro”, commenta Benanti.
La domanda più spinosa è però legata alla possibilità che quest’app in qualche modo possa, in futuro, incidere sui diritti delle persone. Che porta al terzo punto, il quando. Ovvero fino a quando i dati verranno conservati in memoria e potranno essere utilizzati, se anche una volta finita la pandemia oppure no.
“Solo se il periodo previsto sarà lo stretto necessario e se verranno impiegati esclusivamente per questa finalità, allora potremo dire di mitigare gli effetti di questo sistema che di fatto è di controllo delle persone”, spiega Benanti. Solo lo stretto utilizzo per fini sanitari è cioè giustificato.
E non si sa ancora quale sistema sarà adottato, se farà cioè capo alle due grandi multinazionali americane Apple e Google, se invece si baserà su altri modelli di decentramento, o utilizzerà infine modalità proprie.
Infine, superate queste tre domande, bisognerà capire se l’app sarà volontaria o obbligatoria, e ovviamente al momento la politica ha scelto la prima opzione. Considerando poi che molti cittadini nemmeno possiedono uno smartphone, pensare di rendere questo strumento obbligatorio non avrebbe veramente alcun senso.
La risposta a tutto questo deve perciò essere di carattere sociale e rivolta al bene comune piuttosto che all’interesse della più grandi multinazionali al mondo. “Non possiamo delegare alla tecnologia, che può essere un supporto, restando però sempre umani”, spiega Benanti.
Il rischio è di finire in un incubo distopico come purtroppo, già volontariamente, avviene in molti paesi d’Europa, in relazione al fenomeno del cosiddetto transumanesimo.
La risposta deve perciò concentrarsi solo ed esclusivamente sull’umano, “altrimenti rischiamo dei profili distopici e disumani“, spiega il francescano. E in ogni caso sta di fatto che “l’App da sola, senza tamponi, senza un sistema di Servizio sanitario nazionale, è inutile”.
Giovanni Bernardi
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