Riflettere sul passato ci aiuta a non commettere errori per il presente, e ci prepara per il futuro.
Dentro di ognuno di noi vive infatti la storia delle nostre generazioni precedenti, che hanno già affrontato crisi simili alle nostre, e le hanno vinte. Oggi ci troviamo di fronte a un virus emerso in poco tempo e che ha messo a soqquadro il pianeta, non si sa per quanto tempo. Ma in passato epidemie come la Spagnola o l’Asiatica non sono state certamente da meno.
Dopo la cosiddetta pandemia Spagnola, che fece dai 50 ai 100 milioni di morti, ci fu l’Asiatica. Che arrivò nel 1957, poi si interruppe e ritornò a ondate, in particolare nel 1969. Il mondo era diverso, l’informazione infinitamente meno pressante di oggi.
Con la prima mandata, ventimila persone morirono e otto milioni ne vennero infettate, e furono costrette a letto con alta febbre. A differenza di quanto sta accadendo oggi con il coronavirus, l’Asiatica colpiva i più giovani.
I più anziani infatti avevano sviluppato gli anticorpi necessari dopo le influenze precedenti, sempre di origine suina o aviaria e sbarcate dalla Cina o dal sud-est asiatico. In ogni caso, all’epoca le frontiere erano più che chiuse, e difficilmente si raggiungeva la Cina. L’uso dell’aereo riguarda più che altro il nostro mondo, e per questa ragione c’è voluto un batter d’occhio per portare il virus dalla Cina al resto del mondo.
In quel periodo si moriva in casa, a differenza di oggi, costretti alla solitudine degli ospedali. I medici arrivavano a casa con lo stetoscopio e un bollitore in cui sterilizzare aghi e siringhe. Per cui nella prima onda dell’Asiatica si morì in casa, e di polmonite. Causata dallo pneumococco, verso cui ci si può vaccinare, ma spesso non era sufficiente.
Si usavano antibiotici in quantità, ma era perlopiù inutili. Era più che altro una forma precauzionale. Si facevano intrugli e beveroni improvvisati, con verdure, aglio, peperoncini, e quant’altro. Dopo la prima epidemia del ’57 ci fa la seconda, la la Asiatica-2, verso la fine degli anni sessanta.
Non si aveva la cognizione dell’epidemia, non si sapeva cosa fosse una pandemia, si moriva e basta. La morte era quasi una lezione di vita, per chi aveva modo di assistere a questo evento. E quando ci si ammalava, si stava a letto, senza fare troppe tragedie. Si soffriva, si viveva il dolore, si pregava. Non si sapeva cosa fosse una quarantena, l’idea medica dell’isolamento era sconosciuta.
L’immagine delle pestilenza ci pare ancora una metafora letteraria, eppure oggi ce l’abbiamo di fronte, e ha rivoluzionato le nostre vite. Pensiamo che i flagelli di cui narra la Bibbia siano fuori dal mondo, eppure ci siamo dentro fino al collo. E non è un’esagerazione. Lo erano invece le minimizzazioni delle prime settimane, quelle in cui si vedevano le prime persone morire, e si continuava a insistere dicendo: è solo un’influenza.
Per fortuna, oggi la sanità è molto diversa, viviamo spesso delle vere e proprie eccellenze. E dobbiamo esserne molto felici. Ma le generazioni precedenti hanno vissuto le nostre stesse situazioni, hanno sofferto degli stessi mali, conoscono la nostra vita meglio di noi.
Nella memoria collettiva, nel nostro inconscio, persino nei nostri geni, c’è quello che hanno vissuto i nostri antenati nei decenni e secoli precedenti. Che ora pregano per noi dal cielo, aiutandoci a fronteggiare questa dolorosa epidemia. Ricordiamocelo sempre, nel nostro isolamento.
Giovanni Bernardi
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