Il futuro non è della tecnica ma del Signore. Per questo siamo chiamati, nel bel mezzo della pandemia di coronavirus, a riscoprire la nostra fragilità e dipendenza dal prossimo e da Dio.
È la grande lezioni a cui ci chiama questa Pasqua di emergenza. “È un periodo terribile, di grande sofferenza per molti ma è anche una straordinaria occasione di ripensamento. Il futuro sarà diverso da come l’avevamo previsto, proprio per questo dobbiamo avere il coraggio di rifondarlo su categorie nuove”, ha infatti spiegato al quotidiano dei vescovi Avvenire il sociologo, 94 anni, il primo ad ottenere in Italia una cattedra universitaria dedicata alla sociologia, nel lontano 1961.
Il futuro potrà essere solo in Dio
Lo scienziato ha infatti spiegato nella lunga e articolata conversazione che anche se la tecnologia “ci mette a disposizione risorse formidabili”, che aiutano moltissimo a restare vicini – e lo vediamo bene in questo periodo di difficoltà – la realtà è che il futuro non sta in essa. Non potremo mai vivere senza riconoscere la nostra umanità, e sostituendola con il delirio di onnipotenza che la tecnica comporta, quello cioè di crederci non bisognosi di Dio. “Il futuro ha un cuore antico, e le assicuro che non è una frase fatta”, spiega infatti il sociologo e filosofo.
“Abbiamo fatto troppo affidamento sulle macchine, fino a diventare dipendenti da esse. Ma le macchine non hanno volontà, non esprimono un progetto, non possono fare altro che replicare sé stesse all’infinito. Sono mezzi, strumenti. Non possono diventare uno scopo”. Questo non significa certamente che dovremo liberarci in futuro totalmente della tecnologia, vivendo senza di essa. Piuttosto, che dovremo conviverci facendone un uso più ragionevole e umano.
Il Coronavirus ha distrutto le nostre false certezze
In questo, il coronavirus ci sta mostrando in maniera concreta che non si tratta solo di ragionamenti astratti, ma di una necessità fondata su di una verità da cui non possiamo affrancarci. “Non possiamo ignorare la realtà con la quale la pandemia ci obbliga a fare i conti. Vede, abbiamo tanto parlato di globalizzazione e adesso non vogliamo ammettere che la vera globalizzazione la sta attuando il coronavirus”, spiega Ferrarotti.
Come ha fatto tutto questo? “Distruggendo le nostre false certezze, anzitutto”. Il “delirio di onnipotenza tecnica” che alcuni stavano tentando di creare, o che pensano ancora di farlo, “ci portava a immaginare un mondo affidato ai robot, all’intelligenza artificiale, al meccanismo fantomatico della crescita economica sganciata dalla creazione di posti di lavoro”. Ma la tecnica non potrà mai essere perfetta come l’umanità, perché la prima è stata creata dalle mani dell’uomo, la seconda da quelle di Dio.
Per il progresso l’uomo deve riconoscere i suoi limiti
“La tecnica è una perfezione priva di scopo, interessata unicamente all’esattezza interna delle proprie operazioni. Può espandersi a dismisura, ma questa espansione caotica non comporta alcun progresso. Per il progresso occorre l’iniziativa umana, che può essere efficace a patto che l’essere umano stesso riconosca a sua volta i propri limiti“.
Per questo, conclude lo studioso, “il futuro che siamo chiamati a ricostruire non potrà essere se non a misura d’uomo”. “Penso che la strada da percorrere sia quella della solitudine. Non è un paradosso. Il senso del limite di cui facciamo esperienza in questi giorni può aiutarci a riscoprire l’importanza della vita interiore, del silenzio, di quella beata solitudo che, come sappiamo, è sola beatitudo. Intesa correttamente, la solitudine non induce a chiudersi in sé stessi ma, al contrario, è la premessa necessaria all’incontro con l’altro”.
Un silenzio nel quale siamo fortemente chiamati a ritrovare e rinnovare ogni giorno la nostra unione con il Signore. Innanzitutto nella preghiera, poi nella fiducia e nell’amore verso il prossimo e verso Gesù. “Dobbiamo mettercelo in testa: nessuno si salva da solo”
Giovanni Bernardi
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