Da giorni si sente parlare di vaccini, come se fossero la soluzione di tutti i mali. Eppure, sembra che i punti oscuri del contagio da Coronavirus restano molti.
Il caso dell’infermiera spagnolo contagiata subito dopo avere fatto il vaccino è emblematico in questo senso. In queste ore scienziati e consulenti del governo, come Ricciardi, assicurano che le misure sanitarie continueranno ad essere le stesse almeno per tutto il 2021.
A fronte di tutto ciò, sarebbe un bene che la narrazione trionfalista che vorrebbe i vaccini come la cura di tutti i mali dovrebbe lasciare spazio a un altro tipo di racconto, molto più realista, in cui si spiega che, proprio come nei mesi scorsi, sul Coronavirus non si in realtà molto. Ad esempio, non si per niente bene, a differenza di quanto si voglia fare credere, come si trasmette.
In questi mesi stanno moltiplicando gli studi sul virus, e ognuno di questo è capace di aggiungere un tassello che sconfessa le precedenti certezze e introduce nuovi dubbi. Tanto sugli effetti del virus, a lungo e breve termine, sulla sua diffusione, oppure sulle differenti varianti che si fanno strada una dietro l’altra in maniera molto veloce. Come accaduto per l’ormai nota “variante inglese”, ma si parla già anche di una variante italiana.
Tra questi studi, il sito Esquire ne riporta uno che mette in dubbio gran parte delle nostre certezze proprio legate alla modalità di diffusione. Si tratta di un’analisi realizzata dalla virologa dell’università di St. Andrews, la più antica di Scozia, Müge Çevik. La scienziata è esperta di Hiv, tubercolosi, epatite virale, infezioni emergenti e infezioni tropicali nei paesi in via di sviluppo, oltre che membro di task-force che operano con il governo britannico.
In un documento pubblicato dalla scienziata lo scorso novembre emerge che sulle modalità di diffusione del Coronavirus i fraintendimenti sono non pochi. Come altrettanto poco lineari sono le strategie adottate dalla varie politiche nazionali e internazionali, la maggior parte delle volte del tutto inefficaci o inadeguate.
Quello che viene spiegato dalla scienziata, infatti, è che la maggior parte delle infezioni avvenga in luoghi e contesti al chiuso. Non tutti gli ambienti o il tipo di attività che si svolge all’interno hanno infatti lo stesso peso sul propagarsi dell’infezione, tutt’altro. Come lo stesso per la durata dei rapporti interpersonali. Più tempo si sta cioè con una persona che ha contratto il virus e maggiore è la possibilità di venirne infettati.
Ci sono poi attività al chiuso, come ad esempio mangiare o parlare ad alta voce, o ancora peggio l’attività del canto, che fanno emettere un numero molto più alto di goccioline. I ristoranti, ad esempio, sono molto più pericolosi dei supermercati, per la semplice ragione che si mangia senza mascherina e ci si scambia molte parole seduti attorno a un tavolo. Di conseguenza il rischio di contagio, ancora più se quegli ambienti non sono particolarmente areati, è molto più elevato.
Basterebbe cioè, in alcuni casi, semplicemente aprire una finestra per abbattere notevolmente il rischio di contagio, quando non c’è abbastanza ventilazione. Ancora più, ad esempio, sui mezzi pubblici. Uno studio specifico ha dimostrato che se le finestre di un autobus restano aperte, le persone sedute vicino a un infettato non finirebbero a loro volta per essere contagiati dal virus.
In sostanza, se le finestre dell’ambiente in cui ci si trova restano chiuse, ha spiegato la scienziata, lavarsi le mani è un’attività praticamente inutile. Secondo la Çevik servirebbero almeno sei cambi d’aria all’ora, o anche solamente lasciare aperta la finestra per pochi centimetri, per fare circolare l’aria necessaria ad abbattere il contagio.
Un altro dato importante sarebbe quello della dimensione delle abitazioni. Un altro studio mostra che se si vive in un’abitazione particolarmente affollata il rischio di contagio aumenta esponenzialmente rispetto a chi ha a propria disposizione spazi più ampi. Eppure, una delle risposte delle istituzioni di molti Paesi più annunciate è meno realizzata è stata quella dei “Covid-hotel”, che però in tal senso potrebbero risultare molto utili.
Oggi invece nella gran parte dei casi avviene che le persone che risultano positive al Covid si chiudono dentro una stanza di casa, isolandosi in questo modo che tuttavia non garantisce affatto la sicurezza necessaria a non far contagiare gli altri familiari o coinquilini. “Quello che vediamo con la Covid è che la maggioranza non trasmette l’infezione ma un numero ristretto di persone causa ampi focolai”, sostiene la dottoressa.
Nella catena dei tracciamenti, estremamente difficoltosa nel momento in cui si cerca di risalire alle persone da cui si originano i contagi, sembra dimenticarcisi di considerare i luoghi, che sono in realtà un elemento fondamentale nella diffusione del virus. In sostanza, individuando i contesti più rischiosi sarebbe molto più facile intercettare quella che è poi la catena delle infezioni.
Il che sarebbe di certo più efficace che non limitarsi all’uso della mascherina, e assistere a un rialzo continuo dei dati quotidiani sui nuovi infetti.
Giovanni Bernardi
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