Uno studio ricostruire la storia del coronavirus. Pare che il primo infettato si sia verificato tra la metà dello scorso settembre e l’inizio di dicembre.
Si tratterebbe del cosidetto “paziente 0”, al momento ancora da trovare, sempre che si riuscirà mai a farlo. Ricercatori tedeschi e dell’università di Cambridge, nel Regno Unito, hanno pubblicato il documento sulla rivista “Pnas”. Nel testo gli studiosi analizzano genomi virati completi, che sono stati isolati dai malati di coronavirus e in seguito sequenziati nel mondo.
In questo modo si sarebbe ricostruita la diffusione dell’epidemia fin dall’inizio. Gli studiosi hanno inoltre identificato 3 diverse varianti genetiche, “costituite da gruppi di lignaggi strettamente correlati”. Di cui una è “la radice dell’epidemia“, strettamente correlata al virus trovato nei pipistrelli o nei pangolini. Un’altra è quella invece diffusa in Europa, che è quella poi arrivata in Italia.
Nel caso europeo, le ipotesi risalgono a una “prima infezione documentata in Germania il 27 gennaio”, e a “un’altra prima via di infezione italiana sembra correlata a un cluster virale di Singapore”.
Per ricostruire l’evoluzione del coronavirus sono state usate tecniche di solito impiegate “per mappare i movimenti delle popolazioni umane preistoriche attraverso il Dna“. L’autore dell’articolo, Peter Forster, sostiene che sia la prima volta che queste tecniche vengano utilizzate per conoscere la diffusione del coronavirus.
Lo si è fatto con l’analisi dei primi 160 genomi virali completi sequenziati dai pazienti infettati dal coronavirus dal 24 dicembre al 4 marzo. Dalla conclusione dello studio emerge “che la prima infezione umana si sia verificata tra la metà di settembre e l’inizio di dicembre“, sostiene lo scienziato dell’ateneo britannico. Ma per definire un albero genealogico concreto “ci sono troppe mutazioni rapide”.
Quindi si è utilizzato “un algoritmo matematico per visualizzare simultaneamente tutti gli alberi plausibili”. “La rete virale che abbiamo descritto è un’istantanea delle fasi iniziali di un’epidemia prima che i suoi percorsi evolutivi vengano oscurati da troppe mutazioni. E’ un po’ come catturare una supernova“, ha spiegato lo scienziato con una metafora presa in prestito dall’astronomia.
Nel mappare la diffusione delle tre varianti, si è poi scoperto che la prima era presente a Wuhan, l’epicentro della pandemia, ma non era predominante, e ha attecchito in molti pazienti statunitensi e australiani. Nello stesso centro cinese, invece, vi era anche una seconda variante, prevalente nei malati di tutta l’Asia orientale. Gli autori ipotizzano che ci fosse qualche “resistenza” al virus nelle altre aree del pianeta.
Oppure che il virus abbia avuto bisogno di mutare per attecchire in altre zone del mondo. L’ultima variante invece, la terza, è quella maggiormente diffusa in Europa e riscontrata nei pazienti italiani, francesi, inglesi e svedesi. Che è assente in Cina, ma riscontrata a Singapore, a Hong Kong e in Corea del Sud.
Gli scienziati sostengono che questa analisi della distribuzione genetica del virus potrebbe essere utilizzata anche per prevedere eventuali future trasmissioni virali. Gli studiosi hanno messo a disposizione gratuitamente il software su cui si è lavorato.
“L’esame della rete filogenetica potrebbe contribuire a identificare fonti di infezione non documentate da mettere in quarantena per contenere un ulteriore propagarsi della malattia in tutto il mondo”, è la spiegazione di Forster.
Giovanni Bernardi
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