Tra le dinamiche storiche e sociali che il coronavirus pare avere messo in discussione c’è il primato della città sulla provincia.
Durante la pandemia le persone che abitano nei grandi centri urbani hanno vissuto maggiormente le difficoltà legate alla quarantena e all’obbligo di restare chiusi nelle proprie abitazioni. Una vicenda che mette in discussione il processo di urbanizzazione iniziato con la rivoluzione industriale degli scorsi secoli e creduto finora quasi irreversibile.
L’invito a ripensare il concetto della città
Un invito a “ripensare il concetto stesso dell’abitare, reintegrando i tre spazi del vivere quotidiano dell’uomo, che l’Illuminismo e la Rivoluzione Industriale hanno scisso”, ha spiegato al quotidiano Huffington Post l’architetto Massimiliano Fuksas.
Tre spazi che sono, in sequenza, “il luogo dove si abita, quello dove si lavora e quello dove si svolge il tempo libero. Unire le tre funzioni, in una sorta di Nuovo Umanesimo”. Fuksas potrebbe essere considerato una delle personalità definibili come archistar, anche per il fatto che il suo estro visionario ha dato vita a importanti edifici localizzati nelle maggiori metropoli del pianeta.
Il coronavirus e il cambiamento dello stile di vita
La sua filosofia architettonica però ha da sempre l’ambizione di camminare al passo con la gente, spiega il quotidiano. Per questo motivo, anche nella crisi con la pandemia la sua presa di coscienza e radicale e invita a rivedere, anche nel campo dell’abitare, le proprie convinzioni che sembravano erette quasi al livello di certezze indiscutibili. Ma che alla prova dei fatti si sono rivelate nient’altro che scelte arbitraria e dettate da visioni della storia e della società.
Cioè convinzioni elevate quasi al livello di idoli, ma che alla prova della realtà e della natura dimostrano di essere soggetti facilmente ripensabili. L’architetto al giornalista ha spiegato che lui stesso viene da un periodo di campagna durato tre mesi, il tempo cioè della quarantena dovuta al coronavirus. Prova che la necessità di riappropriarsi degli spazi dimenticati, come la campagna, ma vitali, è tutt’altro che obsoleta.
L’evoluzione storica di città e abitazioni
“Se noi pensiamo all’evoluzione dello spazio abitativo, questo nei secoli è molto cambiato. Siamo passati da una società dove si viveva in spazi molto ristretti, a volte in decine di persone, in particolare nei luoghi extra urbani, in campagna dove si viveva in un’unica stanza in molti, con servizi non appropriati”, spiega Fuksas.
“La svolta più grande è arrivata fra le due guerre, con i nuovi quartieri operai, ma anche con i quartieri piccolo-borghesi: la casa ha cominciato a diventare un organismo più complesso e la situazione è migliorata di molto”, continua l’architetto ripercorrendo le concezioni umane dello spazio che si sono succedute negli ultimi secoli.
L’architetto: bisogna rendere i piani abitativi luoghi di incontro
L’opinione di Fuksas è che “la casa non deve essere fatta solo dai privati, ma anche dal Governo”. Nel senso che c’è bisogno di “un piano dell’edilizia sociale che permetta di avere anche un piano abitativo che sia luogo di incontro in condominio per tutti gli abitanti. Un luogo fisico dove ci si possa incontrare per lavorare, per trascorrere il tempo, per fare smart-learning, dove si possono aiutare gli anziani ad imparare i rudimenti della tecnologia”.
Riprendere cioè in mano gli spazi che al momento sono obsoleti e inutilizzati, dei cosidetti “non-luoghi” situati al centro delle più grandi metropoli dell’Occidente. Che può essere anche il condominio del nostro appartamento, il pianerottolo sotto casa, la piazzetta nella via laterale. Luoghi che invece possono tornare ad essere centri di socialità per rivivere una società fatta di interazioni e di scambi. Che per molti sono ormai un lontano ricordo da visionare solamente nelle pellicole cinematografiche.
Il coronavirus ci ha mostrato l’importanza della socialità
Non si tratta cioè, in un certo senso, di privatizzare gli spazi pubblici. Ma di rendere comuni gli spazi privati. “Credo che l’aspetto privato debba essere di per sé pubblico e l’aspetto pubblico, cioè la piazza, le grandi aree verdi e del tempo libero devono essere anche private in un certo senso, reintegrando il senso di pubblico e privato. Ognuno di noi si deve riappropriare oltre che della propria abitazione, del proprio vivere la casa, anche degli spazi pubblici”, spiega.
Nella crisi del coronavirus ci siamo resi conto dell’importanza per gli uomini della socialità. La stessa socialità che già prima della crisi non era al centro dell’attenzione comune, in una società sempre più individualista nonostante ci si finga, nel virtuale, sempre più vicini.
Il coronavirus e il valore di vivere in piccoli centri
“Il coronavirus ci ha fatto scoprire il valore del vivere in piccoli centri”, continua Fuksas. “Questo anche in virtù del fatto che l’Italia sta cominciando a digitalizzarsi. Anche se siamo uno degli ultimi paesi in Europa dal punto di vista dello sviluppo informatico. Solo 1 bambino su 6 ha il computer. Dobbiamo pensare a cablare grandi aree, ad avere un sistema avanzato dal punto di vista digitale.
E allora si può anche pensare di andare a rioccupare aree che sono straordinarie, dove magari vivremmo meglio. 1 su 3 potrebbe lavorare in casa. Ripopolare i paesi dove è più facile vivere perché c’è un senso di comunità più forte rispetto alla città. Con tutte le difficoltà economiche che ci possono essere, la provincia ha una capacità di soluzione superiore a quella della città, dove ogni problema diventa un macigno, ogni aspetto burocratico diventa insolubile”.
Serve una spinta verso il ritrovamento dell’umano
Il punto della questione è che “se si analizza come vivono molte persone in città e come potrebbero vivere da un’altra parte avendo la possibilità di fare smart working, mi rendo conto che sarebbe meglio. Ammesso che si faccia un enorme investimento sul piano della formazione e della ricerca. La gente deve avere più capacità anche dal punto di vista informatico. E poi bisogna ripensare gli ospedali, a partire dal ricircolo dell’aria”.
Servono perciò investimenti contro il coronavirus, a favore del digitale, ma sopratutto in direzione dell’umano, per tornare a vivere più vicini l’uno con l’altro e rifiutare un tipo di società che sembra desiderare di camminare verso un sempre maggiore isolamento tra gli individui. Rendendo tutti più soli e più infelici.
Giovanni Bernardi
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