In questi giorni il governo ha finalmente deciso di allentare le restrizioni dovute all’emergenza del coronavirus, tornando gradualmente alla ripresa delle attività produttive.
Gli italiani però si dichiarano più preoccupati della crisi economica che di quella sanitaria. Lo rileva un sondaggio effettuato da Quorum/YouTrend, svolto tra il 15 e il 19 maggio 2020 su un campione rappresentativo di 809 intervistati maggiorenni e residenti in Italia.
Il sondaggio: la crisi economica spaventa più del coronavirus
L’attuale fase di ripresa è infatti certamente molto delicata, e le difficoltà economiche già per molti evidenti potrebbero sfociare da un momento all’altro in difficoltà di carattere sociale. Con la rabbia e la tensione di tanti commercianti e operai che hanno chiuso o che hanno perso il lavoro e ora si trovano senza aiuti da parte del governo e abbandonati, con famiglie e costi a carico.
Il sondaggio rivolgeva ai cittadini le seguenti domande: rispetto a quanto potrà succedere in Italia nei prossimi mesi, la preoccupa di più la situazione sanitaria o quella economica e sociale? Secondo lei nei prossimi mesi le tensioni in Italia aumenteranno? E secondo lei cosa dovrebbe fare il Governo per contenere queste tensioni sociali?
La paura degli italiani
Per sei italiani su dieci infatti è molto più problematica la situazione sociale ed economica di quella sanitaria, mentre soltanto un terzo degli intervistati si è dichiarato più preoccupato per il coronavirus che per l’economia. Se si guarda alle fasce di età, i più spaventati dalla situazione economica sono gli under 55, che allarma tre persone su quattro.
Per i cittadini sopra i 55 anni si scende a poco più della metà, anche perché il virus tendenzialmente colpisce più gli anziani. Se si guarda invece alla dislocazione geografica e territoriale, la situazione sanitaria preoccupa più al nord e in particolare del Nord-Ovest, che non a caso sono le aree più colpite dal coronavirus.
La crisi economica e le possibili tensioni sociali
Secondo il 61 per cento degli italiani, tuttavia, nei prossimi mesi la crisi economica porterà a tensioni importanti e in aumento nella società. Al contrario, solamente un italiano su quattro pensa che non ci saranno aumenti di conflittualità dei prossimi mesi. In tutte le fasce d’età e in tutte le aree del paese c’è una comunque una maggioranza assoluta delle risposte date in cui ci si immagina questo incremento di tensioni nei prossimi mesi.
Preoccupazioni purtroppo tristemente supportate dall’andamento della società reale. Infatti, secondo quanto segnala la Cgia, soltanto nei primi tre mesi di quest’anno il numero totale delle imprese artigiane nel nostro paese è diminuito di oltre diecimila unità.
L’evoluzione del dato
Dato che tuttavia resta ancora in linea con quanto avvenuto nei tre anni precedenti, ma che per questo potrebbe peggiorare fortemente nelle rilevazioni dei prossimi mesi, nel momento in cui gli effetti negativi del lockdown dovuto al coronavirus cominceranno a dispiegare i suoi effetti.
Molti artigiani infatti sprovvisti di alcun tipo di sostegno al proprio reddito sono andati fortemente in crisi in questi due mesi e mezzo. Molti di loro hanno pensato di non riaprire più le proprie attività. Anche se dopo soltanto una settimana di riapertura lo stato d’animo di molti di loro è parso migliorare, ha spiegato il coordinatore dell’Ufficio studi della Cgia di Mestre Paolo Zabeo.
Le richieste della Cgia
“C’è voglia di lottare, di resistere, di risollevare le sorti economiche della propria attività”, spiega Zabeo. “Purtroppo, non tutti ce la faranno a sopravvivere e non è da escludere che entro la fine dell’anno lo stock complessivo delle imprese artigiane presente nel Paese si riduca di quasi 100 mila unità, con una perdita di almeno 300 mila posti di lavoro”.
Tutto dipenderà dalle misure di sostegno che il governo deciderà di mettere in campo da qui ai prossimi mesi, per contrastare gli effetti negativi della chiusura. Alla fine di marzo in Italia c’erano 1.275.970 imprese artigiane, e quello che la Cgia chiede al governo è l’erogazione di contributi a fondo perduto e il blocco per almeno un anno di imposte come Irpef, Ires e Imu sui capannoni.
Piccole imprese e artigiani chiedono sostegno
“L’artigianato ha bisogno di sostegno perché è l’ elemento di coesione sociale del nostro sistema produttivo. Se spariscono le micro imprese, rischiamo di abbassare notevolmente la qualità del nostro made in Italy”, spiega il segretario della Cgia Renato Mason.
Se infatti “con il decreto Rilancio sono state introdotte diverse misure tra cui l’azzeramento del saldo e dell’acconto Irap in scadenza a giugno, la riproposizione dei 600 euro per il mese di aprile e la detrazione del 60 per cento degli affitti”, resta il fatto che “tutto questo è ancora insufficiente a colmare la rovinosa caduta del fatturato registrata in questi ultimi mesi da tantissime piccole realtà”.
Troppi provvedimenti e la loro dispersione
Ci sono cioè, si sostiene, “troppi provvedimenti che rischiano di disperdere in tanti rivoli le risorse messe a disposizione che, invece, dovrebbero essere convogliate solo su tre voci: famiglie, indennizzi diretti alle imprese e taglio delle tasse”.
I contributi a fondo perduto stabiliti con il decreto del governo per le piccole imprese, per la Cgia rischiano di portar alcun effetto positivo al settore. Si tratta infatti di provvedimenti molto contenuti per le singole attività che hanno subito i pesanti effetti della crisi, spiegano. Nella migliore delle ipotesi, potrebbero coprire al massimo un sesto delle perdite avute ad aprile.
Il crollo dei consumi e la crisi sociale che si affaccia
E oltre a ciò, ad aggravare sulla situazione già difficile, oltre alla mancanza di credito ci sono le previsioni dei consumi terribilmente basse nei prossimi mesi. Il Def 2020 prevede un calo della domanda di almeno il sette per cento, che significa un crollo degli acquisti di almeno 75 miliardi complessivi rispetto al 2019. I primi a pagare le conseguenze di questa crisi saranno piccoli commerciali, autonomi e artigiani. Ovvero chi vive principalmente, a volte quasi esclusivamente, dei consumi delle famiglie.
Tanti “negozi di vicinato” rischiano di chiudere per colpa del drastico calo di fatturato. Determinando a caduta problemi occupazionali importanti e abbassamento della qualità della vita. Se le aree in particolare urbane si impoveriscono, a proliferare saranno degrado, abbandono e microcriminalità.
La crisi delle singole imprese: quanto hanno perso
Entrando nel dettaglio delle singole imprese, un parrucchiere che ha un fatturato medio annuo di 70 mila euro ad aprile ha registrato una perdita di quasi 6 mila euro rispetto all’anno precedente, e con il decreto è prevista una restituzione di meno di 1200 euro. Un falegname con fatturato di 180 mila euro annui ad aprile ha avuto circa una perdita di 15 mila euro, e dal governo riceverà il venti per cento dei mancati ricavi, ovvero 3 mila euro.
Lo stesso per un impresa edile ad esempio dal fatturato di 450 mila euro annui, che con le disposizioni del “decreto Rilancio” riceverà 5.600 euro circa. Un’azienda metalmeccanica con 500 mila euro di ricavi e un disavanzo di 40 mila euro riceverà dallo Stato poco più di 6 mila euro.
Le strade che il governo può scegliere contro la crisi
Per fare fronte a queste problematiche il governo ha principalmente tre strade da scegliere. Introdurre sussidi o bonus al reddito, ridurre la pressione fiscale, puntare su politiche per l’occupazione, per esempio con investimenti pubblici in infrastrutture. Oppure provarle tutte e tre contemporaneamente.
Stando al sondaggio, la maggioranza degli italiani pensa che tra queste la via migliore sia quella di ridurre le tasse su famiglie e imprese. Nello specifico, a sostenere questa tesi è il 41 per cento degli intervistati. Mentre il 34 per cento circa pensa che si debba puntare sulla creazione di lavoro investendo in infrastrutture. Solo il 18 per cento degli italiani pensa che la strada giusta sia quella di puntare sull’assistenzialismo verso i cittadini più poveri.
La soluzione? Ridurre le tasse e creare lavoro
La riduzione della pressione fiscale è la soluzione migliore per circa la metà degli intervistati nella fascia dai 18 ai 35 anni. Mentre più si cresce con l’età e meno si pensa che il taglio delle tasse sia la strada giusta. Sopra i 55 anni, solo il 36 per cento lo sostiene. Mentre a livello geografico i più convinti che si debba puntare sulle politiche per il lavoro sono i cittadini del Centro Italia.
Mentre al Nord e nel Mezzogiorno la riduzione delle tasse resta l’ipotesi migliore per uscire dalla crisi evitando le tensioni sociali dei prossimi mesi.
Giovanni Bernardi
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