Oggi i ceppi dominanti del coronavirus hanno una maggiore capacità di infettare le cellule umane, e per questo potrebbero essere più contagiosi.
I sintomi che verrebbero determinati, tuttavia, non sarebbero più gravi della variante originale del virus. Tutto ciò, a causa di una mutazione riscontrata nella proteina S (Spike) del coronavirus.
Attualmente, infatti, i ceppi di coronavirus che fanno da motore alla pandemia differiscono da quelli originali apparsi in Cina. A certificare tutto questo, uno studio basato su una ricerca pubblicata all’inizio di maggio.
A guidare lo studio, un team di ricerca internazionale composto dal Laboratorio Nazionale di Los Alamos. Insieme al Centro di Ricerca Biomedica dell’Università di Sheffield (Gran Bretagna), dell’Istituto sui Vaccini dell’Università Duke, dell’Istituto di Immunologia di La Jolla e dello Sheffield COVID-19 Genomics Group.
Secondo lo studio, la variante mutata risulta più trasmissibile e anche portatrice di una carica virale maggiore nei positivi. Ma le condizioni cliniche dei pazienti colpiti risultano le stesse. Nonostante le ipotesi dovranno essere confermate da studi più approfonditi.
A maggio la ricerca preliminare spiegava che la variante genetica più contagiosa che si stava diffondendo, dal nome D614G, era formata da una glicoproteina. Con la caratteristica di formare strutture a “ombrellino” attorno al guscio esterno del virus. Utilizzata prima per legarsi al recettore ACE2 delle cellule umane. E poi per disgregare la parete cellulare, facendo riversare all’interno l’RNA virale. Dando così il via, in questo modo, all’infezione.
La mutazione diventa fondamentale perché si trova alla radice del processo di infezione, ed è questa che molti vaccini in fase di realizzazione punterebbero a colpirla. Nel caso invece il virus muti eccessivamente, allora i rimedi in corso di sperimentazione rischierebbero di risultare nulli.
Per questo motivo la ricerca risulta avere un valore considerevole anche alla luce dei numerosi lavori di sperimentazione del vaccino sul coronavirus, offrendo un monito d’allarme. Che ora è suffragato da ulteriori dati di laboratorio.
Da seimila sequenze genetiche della ricerca originale si è passati a 30mila, coinvolgendo un migliaio di pazienti ricoverati negli ospedali britannici, a differenza della prima versione in cui i pazienti erano 470.
La circolazione della variante mutata è tuttavia risultata essere sempre in costante aumento e più capillare, e a prescindere dalle restrizioni agli spostamenti messe in campo. Queste varianti risulterebbero così maggiormente adatte a infettare i pazienti, anche se al momento non sono state confermati le ragioni che attirino questa trasmissibilità del virus.
Giovanni Bernardi
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