In questi mesi ci sono stati numerosi sacerdoti che hanno sfidato il Coronavirus in nome di una legge più grande, quella dell’amore. Assistendo i malati in corsia.
Molte persone colpite dal virus, infatti, sono stati spesso impossibilitati anche a ricevere una carezza dai propri cari. Una parola di conforto, o un sorriso, anche fosse solo con lo sguardo.
Molti sacerdoti invece hanno preso in mano il crocifisso e si sono diretti nelle corsie degli ospedali per dare compimento alla loro missione, quella di stare vicino ai fratelli in nome del Signore.
I cappellani degli ospedali, ad esempio, hanno visto molte persone lasciare questa terra, nel periodo della maggiore crisi del Coronavirus. Troppe persone. Ora siamo di nuovo in un momento difficile, al di là di ogni singola lettura dei numeri diffusi dai bollettini quotidiani.
La paura aumenta, tanto nella popolazione quanto negli operatori sanitari. Ci si chiede se bisogna veramente aspettarsi una nuova ondata di casi. Ma in tutto il dolore, la preoccupazione, l’allerta, questi pastori non hanno mai abbandonato il loro gregge.
Il dolore dei singoli, infatti, chiama sempre una risposta. Di fronte alla paura c’è bisogno di consolazione, di tranquillizzarsi e di lasciarsi tranquillizzare. Solo Dio, però, può compiere veramente il miracolo della pace e della serenità vera, quella che viene dal profondo e che non si ferma solo all’apparenza.
Il quotidiano Avvenire fa una breve carrellata di questi uomini di Dio che non hanno mai lasciato soli i fratelli nella fede. Come ad esempio don Luca Casarosa, cappellano del Nuovo ospedale Santa Chiara di Pisa Cisanello, che dallo scoppio della pandemia ha accompagnato oltre 130 persone che sono purtroppo defunte.
“Sono stato con loro fino alla fine dando a tutti benedizione e preghiera, ho coinvolto medici e infermieri, ho fatto da ponte con i familiari, li ho coinvolti per telefono, li ho benedetti. Ma non è stato facile“, ha confidato al quotidiano dei vescovi. “Vedi tutti quei malati soffrire così tanto, la maggior parte intubati, mentre si lamentano che gli manca l’aria”.
Don Luca però ha sempre lottato fino all’ultimo per esserci, per essere presente e accompagnare i fedeli che hanno esalato l’ultimo respiro, in attesa della vita eterna. “In quei momenti devi imparare a stare zitto, a pregare e soffrire con loro, in silenzio”, ha spiegato il sacerdote. Considerando però che, certamente, quando hai di fronte decine e decine di persone in rianimazione, tra la vita e la morte, non è facile.
“È dura, ma ci diamo sostegno, stando tutti insieme, medici e infermieri, nei momenti di dialogo; abbiamo creato un rapporto grande, di fraternità”, ha continuato. La stessa situazione è stata quella di don Paolo Mulas, cappellano dell’Azienda ospedaliera universitaria di Sassari. Durante questi mesi ha sempre prestato servizio incessante al fianco dei malati e degli ultimi, vittime della crisi sanitaria e sociale.
Con tutte le precauzioni, come tuta e mascherina, ma senza mai tirarsi indietro. “La nostra presenza è un segno di quel prendersi cura, di quella vicinanza a coloro che si trovano ad affrontare malattia e morte, soli anche nel fine vita”, ha ricordato il sacerdote. “Cerchiamo di sconfiggere innanzitutto la paura del soffrire e del morire”, ha spiegato ancora.
Gli sguardi disorientati dei malati, ha raccontato, hanno bisogno di conforto. Di fronte alle difficoltà cresce però la consapevolezza della finitezza umana, del senso della vita e della morte, della solitudine, della sofferenza e del dolore. E dell’importanza del calore umano, di una parola vicina che sia capace di dire: ti voglio bene, io ci sono.
“In qualche modo cerchiamo di preparare anche le famiglie. Mi sento con loro sia al momento del ricovero che quando poi qualcuno di loro muore. Provo a fargli capire che non erano da soli, che non hanno sofferto”, ha spiegato il sacerdote. Che ha ricordato, però, che in tutto ciò altresì “c’è lo strazio di non aver dato un’ultima carezza”.
“Per questo, la nostra non è solo un’opera di misericordia spirituale ma un gesto che facciamo a nome della famiglia. È una morte in solitudine, certo, ma non senza speranza. Molti ricevono la Comunione, hanno un accompagnamento spirituale”.
Oltre a loro ce ne sono molti, citati anche dal quotidiano. Come don Marco Galante, cappellano dell’Ospedale di Schiavonia, a Monselice in provincia di Padova, cittadina che ha avuto il primo decesso legato al Coronavirus.
O don Isidoro Mercuri Giovinazzo, cappellano dell’Azienda ospedaliera della Valle d’Aosta, Ospedale Beauregard e Parini, e direttore dell’Ufficio di Pastorale della salute della diocesi di Aosta. O infine, ancora, padre Angelo Gatto, cappellano dell’Ospedale di Terni, o don Nunzio Currao, assistente pastorale del personale del Policlinico Gemelli di Roma.
“La distanza dalle persone care, che non riescono nemmeno a salutare prima di morire, è il peso più grande. Ho cercato di stargli vicino, di portare consolazione”, ha spiegato don Galante. Mentre don Giovinazzo chiosa: “Ogni giorno impariamo che accompagnare alla morte terrena significa accompagnare alla beatitudine un’anima che si apre a Dio“.
Giovanni Bernardi
Fonte: Avvenire
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