Spesso negli ultimi mesi si è parlato della possibilità che il caldo potesse ridurre o indebolire la carica del coronavirus.
Illustri virologi, o accreditati come tali, si sono spesi per bollare tutte queste affermazioni come false. Ora si è scoperto che è esattamente così.
Uno studio di Milano infatti, a cui hanno partecipato sia immunologi che astrofisici, ha messo in evidenza il fatto che l’irraggiamento solare avrebbe la capacità neutralizzare il coronavirus nelle famose goccioline di saliva. Ovvero quelle famose goccioline tanto temute che finiscono per fare sì che le persone si infettino.
I due articoli sono stati pubblicati sull’archivio internazionale medrxiv. A breve, si dice che ne arriverà un terzo. Il merito degli studi va ai ricercatori dell’Irccs Fondazione Don Gnocchi di Milano, dell’Università degli Studi di Milano, dell’Istituto nazionale di astrofisica e dell’Istituto nazionale dei tumori.
Un lavoro tutto italiano quindi, che fa una scoperta molto importante, e che però purtroppo ci mette anche in guardia dai rischi che potrebbero tornare nel momento in cui i raggi solari, nella stagione autunnale e invernale, potrebbero diminuire di intensità. Ma che allo stesso tempo apre la strada anche a modalità per combattere il contagio, ad esempio negli ambienti chiusi.
Mario Clerici, docente di Immunologia all’Università di Milano e direttore scientifico del presidio Irccs Santa Maria Nascente della Fondazione Don Gnocchi, ha spiegato la dinamica che questi studi avrebbero messo in luce. Secondo la ricerca, infatti, “il sole invia sulla Terra i fotoni sotto tre lunghezze d’onda di raggi ultravioletti: Uv–A, Uv– B, Uv–C”.
“Questi ultimi sono bloccati dall’ozono nell’atmosfera e non arrivano sulla Terra”, continua il medico. “Vengono usati, per esempio, dalle lampade per la igienizzazione degli acquari perché è noto il loro potere sterilizzante su virus e batteri. Ci siamo chiesti quindi se gli Uv–C sarebbero stati capaci di inattivare il Sars–CoV–2 nelle goccioline di saliva che trasmettono il contagio”.
Durante l’esperimento, il virus è stato fatto crescere fino a diffondere attraverso le famose goccioline. Che sono state esposte a diverse dosi di Uv–C. Le prova sono state svolte prendendo a campione tre diverse quantità del virus. La quantità rilevata nei soggetti infetti ma asintomatici.
Questa è stata amplificata di dieci volte, con una carica pari a quella rilevata nei tamponi dei pazienti con sintomi. Infine per mille, che corrisponde alla carica presente nei pazienti in fin di vita a causa della polmonite da coronavirus.
I risultati hanno consegnato un esito positivo. “Abbiamo riscontrato che basta una tenue dose di Uv–C, pari a 3,4 millijoule per centimetro quadro, per inattivare completamente il virus, anche alle dosi più alte: basta un’esposizione minore di quella irraggiata dalle lampade usate per disinfettare gli acquari”, spiega il medico.
“È la prima dimostrazione che gli Uv–C funzionano, e che la quantità che serve è minima. Poi abbiamo ripetuto l’esperimento con gli Uv–A e gli Uv–B, che invece raggiungono la Terra, e il risultato è stato lo stesso”.
In effetti, considerando i dati che ci arrivano anche solamente dalle cronache, questo studio trova perfetta corrispondenza con il fatto, ad esempio, che nei paesi più caldi del pianeta ha stentato ad attecchire. E che adesso, nei paesi del nostro emisfero, dove le temperature sono più alte, la pandemia pare più controllata.
Ma che al contrario, nell’emisfero australe, dove sta arrivando l’inverno, la pandemia sta assumendo dimensioni incontrollate. Come ad esempio in Brasile. Se poi si confrontano i dati dell’irraggiamento solare che riguardano ben 246 Paesi del mondo, relativi al periodo tra il 15 gennaio e il 30 maggio, si nota una relazione quasi perfetta.
Che cioè, all’aumentare dell’irraggiamento solare il numero di nuovi contagi diminuisce. E viceversa. Certamente, sottolinea il quotidiano dei vescovi Avvenire, anche le misure sanitarie e di contenimento hanno avuto i loro effetti. Mascherine, distanziamento, lockdown e tutto il resto, hanno sicuramente inciso nel contenimento della pandemia, dopo la fase maggiormente problematica.
Però resta il fatto che “gli astrofisici hanno rilevato che il fattore che fa veramente la differenza è la quantità di raggi solari che arrivano sulla Terra“, viene spiegato. Il che tuttavia non ci permette di fare previsioni sul futuro troppo accurate, dice Clerici.
Non bastasse, “una nostra terza ricerca, in via di pubblicazione, rileva che negli ultimi 120 anni l’andamento epidemico dell’influenza è inversamente proporzionale all’irraggiamento solare”, spiega il medico.
“Non possiamo dire se il virus tornerà o meno. La Sars 1 è scomparsa, la Mers no. È possibile che in autunno da noi aumentino i casi, ma siamo molto più preparati ad affrontare il contagio di quanto sia stato a febbraio–marzo“.
Giovanni Bernardi
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