È facile arrabbiarsi con chi commette peccati gravi e notori. A volte tendiamo ad allontanare il peccatore e lasciare che paghi per le proprie colpe.
Ancora nel terzo millennio non si riesce fa sfuggire alla seduzione dell’atteggiamento farisaico di voler stare alla larga da chi sbaglia per non contaminarsi. Eppure, c’è una parolina che può mandare in crisi: corresponsabilità.
Non devo giudicare ma posso correggere?
Caino e Abele: il dovere di custodire il fratello
Libro della Genesi. È appena stato commesso il primo omicidio della Storia. Caino uccide il fratello Abele. Dio lo cerca, lui si nasconde. Alla fine, non può esimersi dal confronto col Creatore che gli chiede dove sia Abele. Emblematica è la risposta: “Sono forse io il custode di mio fratello?”. Il grido di Dio di fronte all’uomo peccatore è forte: “Che hai fatto?”. Il sangue innocente grida vendetta al cospetto di Dio. Ma Chiunque toccherà Caino subirà la stessa condanna.
Perché richiamare il racconto delle origini?
Perché qui è la base di un’annotazione molto interessante di Papa Giovanni XIII. Il Papa Buono nella Pacem in terris, ci ha ricordato che si condanna il peccato non il peccatore, chi sbaglia è pur sempre nostro fratello, creatura fatta a immagine e somiglianza di Dio. Certo il peccato ferisce, sfigura l’uomo, ma non annulla la sua bellezza di creatura creata dall’Amore e per amare. Dio ci ha creati in solidarietà, per cui: “io sono il custode di mio fratello”. Ecco perché Gesù ci descrive i passaggi fa fare per accompagnare chi sbaglia sulla strada della consapevolezza, del perdono e della riconciliazione.
La correzione fraterna
Il Vangelo di Matteo (18, 15-20) esorta a parlare prima a tu per tu, se non ascolta poi alla presenza di una o due persone, se ancora persiste la sua condizione va segnalata alla comunità. La logica non è allargare il raggio di umiliazione dal privato al pubblico, ma rinsaldare la trama del sostegno e dell’aiuto, chiedere rinforzi per salvare dalla fossa dell’autodistruzione il fratello o la sorella che è incappato nel baratro del peccato.
Anche San Paolo quando scrive ai Romani si appella a questa corresponsabilità. Al Capitolo 12 esorta a vivere una carità sincera nei confronti dell’altro, depurata da ogni forma di ipocrisia, a fare a gara nella stima vicendevole.
Amare i nemici, fare del bene a chi ci fa del male, benedire chi ci maledice, rallegrarsi con chi è nella gioia, piangere con chi è nel pianto, non restituire il male al male, ma vincere il male con il bene. Se il nemico ha fame, occorre dargli da mangiare, se ha sete, abbeverarlo, prendersi cura dell’altro nonostante tutto. Ecco il regolamento di vita per il cristiano.
La forza della mitezza
Tutto questo non dice passività o offrire il fianco al nemico. Niente di tutto questo. È la rivoluzione non violenta che ci ha testimoniato Gesù. Il peccato non può essere né la prima né l’ultima parola. La prima parola è la buona creazione di Dio, il suo disegno originario, il bene che dono gratuito di Dio è sempre presente nel mondo. L’ultima parola, invece, è la salvezza realizzata dal Signore e offerta a tutti.
Il volto della persona, anche se distorto dal peccato, resta immagine di Dio. Se si guarda al peccatore con occhi di misericordia, non come un cancro da eliminare ma come una cellula da rivitalizzare allora lo splendore dell’immagine divina si potrà ripulire e risplenderà ancora.
Certo non è facile, condizione imprescindibile è l’umiltà. Non reputare sé stesso migliore dell’altro. Oggi è lui che ha sbagliato, domani sarò io. Allora quando sbaglierò come vorrò essere aiutato? La regola d’oro è sempre di grande attualità: “Tutto quanto volete che gli uomini facciano a voi, anche voi fatelo a loro” Mt 7,12.