Oggi il 98% delle donne incinte a cui viene diagnosticato che il bimbo è affetto dalla sindrome abortisce. I dati, impressionanti, sono del Cytogenisk Centralregister della clinica universitaria di Aarhus. Quasi solo religiose, e della minoranza cattolica, le voci che dissentono. Ci si chiede se non si sia ”andati troppo oltre”. L’anticamera di una mentalità eutanasica di massa
“Fra trent’anni non ci saranno più persone affette da sindrome di Down”, titolano i giornali danesi in questi giorni. Non si tratta però di un qualche straordinario miracolo in campo medico, capace di “aggiustare” quel cromosoma che chissà come si aggiunge alla coppia cromosomica 21, generando la sindrome di Down. Non ci saranno più perché il 98% delle donne incinte a cui viene diagnosticato che il bimbo è affetto dalla sindrome oggi abortisce. I dati, impressionanti, sono del Cytogenisk Centralregister della clinica universitaria di Aarhus. Tutti concordi nel dire che quel 98% è conseguenza della decisione dell’Autorità sanitaria danese nel 2004 di dare possibilità gratuita alle mamme di effettuare un esame di screening prenatale non invasivo (Nipt) alla nona settimana di gravidanza, la translucenza nucale alla dodicesima, ed eventualmente l’amniocentesi entro la ventesima, garantendo al 99,3% la certezza della diagnosi. Non è una “libera scelta”. “È opinione condivisa ormai da anni in Danimarca che se c’è la diagnosi, si abortisce. Nessuno pone domande”, spiega Thomas Hamann, presidente dell’Associazione nazionale per la sindrome di down (Landsforeningen Downs Syndrom). Nel 2014 sono nati 2 bambini Down per scelta, 32 per “errore diagnostico”. Autorità statali in campo sanitario non fanno nulla per impedirlo, giustificandosi con “la libera scelta della donna”. In realtà “c’è bisogno di tanto coraggio per scegliere di accogliere il bambino” in un contesto sociale che “non lascia spazio a questa possibilità”. La famiglia viene lasciata sola. Il Comitato etico nazionale aveva messo “in guardia contro le strumentalizzazioni economiche di questa procedura” spiega Hamann, ma “gli interessi economici ci sono e sono enormi” e ammontano a milioni di euro risparmiati dai costi sanitari e sociali necessari per affiancare le persone Down nel corso della vita. Così l’associazione cerca di “far conoscere che cosa è la sindrome, e che non è la fine del mondo avere un figlio Down e che ci sono molte possibilità per stimolare adeguatamente il bambino in modo che si sviluppi armoniosamente”. A partire dall’affetto della mamma e del papà, ovviamente. Hamann però è disincantato: “La selezione della specie non è una questione del futuro”. Il presente in Danimarca rischia di essere “il futuro del mondo”. Non solo: “l’aborto potrebbe diventare la risposta a ogni esame che lasci intravedere la possibilità di patologie nel futuro del feto. Ed è sconvolgente”. “Ci siamo spinti troppo oltre”. “Di fronte al fatto profondamente vergognoso che stiamo eradicando un particolare gruppo di persone in Danimarca”, afferma Ellen Højlund Wibe, dell’Associazione diritto alla vita (Retten til Liv), “incontriamo reazioni da molti Paesi occidentali e da diversi gruppi, non solo di cristiani impegnati”; mentre in Danimarca “non ci sono più garanti del valore della vita umana”, denuncia Wibe. E testimonia: “I pochi che scelgono di tenere un bambino Down, spesso per motivi religiosi, incontrano scarsissima comprensione verso il loro desiderio. Il loro timore è che gli aiuti economici in futuro possano essere ridotti, perché gli si dirà che avrebbero potuto abortire. La loro paura non è infondata”. Wibe osserva con fiducia che “dalla profondità dell’istinto umano nascono alcune reazioni e sta lentamente crescendo la consapevolezza, anche in ambiti laici, che ci siamo spinti troppo oltre con la nostra eugenetica in Danimarca”. Il pericolo-eutanasia. “Come medico cattolico vedo in questo sviluppo una minaccia per l’umanità stessa e la negazione di una parte essenziale della vita”, dice John-Erik Stig Hansen, medico e direttore del Centro nazionale di bio-sicurezza. “Si sta lentamente ridefinendo la percezione di ciò che è normale, desiderabile o di valore. E non c’è posto per la debolezza”. Stig Hansen vede un “legame molto problematico tra le questioni di diagnosi pre-natale e il movimento pro-eutanasia: circa il 70% dei danesi, secondo i sondaggi, è a favore dell’eutanasia: se la vita diventa difficile e richiede aiuto, assistenza, compassione, è esclusa, non è più considerata una vita buona”. Una tristezza del dottor Hansen, che fra l’altro è presidente del consiglio pastorale nella sua parrocchia a Lyngby, sta nel “vedere che le nostre Chiese sono piuttosto passive”. “La maggioranza dei danesi appartiene alla Chiesa luterana di Stato ed è quindi parte del sistema, senza obiezioni verso l’aborto, nemmeno quello selettivo”. Solo Chiese minoritarie come la Chiesa cattolica e alcune delle Chiese evangeliche “protestano, ma in un modo molto poco visibile”. Quindi un messaggio all’Europa: “La Danimarca è un laboratorio, un esempio a cui guardare per capire che cosa succede se si tolgono la religione e il cristianesimo dalla società”.
Fonte:notizieprovita.it