Alla fede servono i miracoli?
I Vangeli conferiscono senza ombra di dubbio una grande importanza ai miracoli: presenti in grande quantità nel vangelo più antico, quello di Marco, sono descritti come segni (semeia) nel Vangelo di Giovanni, quello più recente. In sostanza con essi Gesù vuole rendere manifesto, attivo, operante, l’amore del Padre verso i malati e i sofferenti, quelli che la cultura ebraica del tempo bollava come “maledetti da Dio”[1]. Oltre a questo naturalmente i miracoli costituiscono poi prova della natura divina di Gesù: sempre nel vangelo di Giovanni Nicodemo afferma che «nessuno infatti può compiere questi segni che tu compi, se Dio non è con lui»[2]. Infine, last but not least, non va dimenticato che la fede cristiana si fonda su un evento miracoloso, la risurrezione di Nostro Signore.
Tutto ciò premesso, che sappiamo oggi sui miracoli? Studi in merito ce ne sono stati moltissimi, basta consultare la voce miracolo di un qualsiasi dizionario di teologia fondamentale: in particolare fra i più recenti si distinguono gli studi sull’argomento di René Latourelle o, in ambito più nostrano, quelli di mons. Fisichella e di Giuseppe Tanzella-Nitti a cui rimando per chi volesse approfondire.
Tornando al nostro tema, nei miracoli si distinguono tre aspetti: il primo è l’elemento interiore, psicologico, umano, di reazione ad un evento. Non a caso il termine miracolo deriva dal latino miror, meravigliarsi, ed è proprio questo senso di stupore, di meraviglia, l’elemento di partenza. Il Nuovo testamento usa vari termini per indicare il miracolo dove, per enfatizzare questo aspetto, è utilizzato il termine greco téras (prodigio, portento). Già, ma… stupore di fronte a che? È qui che entra in ballo il secondo aspetto dei miracoli, quello potremmo dire fenomenico: lo stupore di cui sopra è causato da un avvenimento reale (cioè qualcosa che posso vedere e toccare, qualcosa che percepisco con i miei sensi) del tutto imprevisto, non naturale, non conforme a quanto sarebbe lecito attendersi in base alle leggi della natura. Basta pensare ai miracoli di Gesù per capirlo: «I ciechi ricuperano la vista, gli storpi camminano, i lebbrosi sono guariti, i sordi riacquistano l’udito, i morti risuscitano, ai poveri è predicata la buona novella» (Mt 11, 5, vedi anche Lc 7,22). Si tratta di avvenimenti che non possono accadere in natura, impossibili: non solo perché (fra l’altro) i ciechi non recuperano la vista e i morti non risorgono, ma è anche il carattere immediato e completo delle guarigioni a renderle – se possibile – ancor più eclatanti. Nel Nuovo Testamento vengono usati vari termini per enfatizzare questo aspetto, fra i quali ricordo dynamis e érgon.
A tutto questo manca però un terzo aspetto, quello del senso. Qual è il significato di questi gesti? Gesù non li compie per stupire il suo uditorio, ma nel lanciare un messaggio di solidarietà e piena empatia ai reietti del suo tempo vuole mostrare di essere Lui e solo Lui il Figlio di Dio, Colui che può porsi addirittura al di sopra dell’Antico Testamento affermando «Avete udito che vi fu detto… ma io vi dico…» (Mt 5, 21-22, 27-28, 38-39). Il carattere di segno è reso dal greco semeion, segno, usato dal vangelo di Giovanni come unico termine per definire i miracoli: come a dire: questi eventi portentosi non sono fini a se stessi ma portano con sé un messaggio, un significato, ed è li che bisogna andare.
Inutile dire che attorno a questi tre poli del miracolo la ricerca storica, scientifica e teologica sta dibattendo da secoli. Se la Chiesa cattolica, dal medioevo fino all’età dei lumi ha dato un’importanza prioritaria al secondo aspetto, quello fenomenico, a partire dall’800 molti teologi protestanti e modernisti hanno invece dato una grande enfasi al primo: come a dire che al centro di tutto non c’erano presunti eventi soprannaturali, bensì la reazione psicologica della “primitiva comunità cristiana” di fronte ad eventi solo apparentemente prodigiosi, in realtà comunque – sempre secondo loro – spiegabili in un modo o in un altro[3]. Da un punto di vista cattolico questi aspetti del miracolo sono necessari entrambi, così come il terzo aspetto, quello dei miracoli come segni, la cui importanza è stata ribadita in passato (fra gli altri) dal celebre teologo Maurice Blondel[4].
Alla fede serve il miracolo? Il fatto è che la fede è un dono sovrannaturale, che viene da Dio, ma è anche un atto di libertà perché presume una scelta. San Tommaso dice che «nessuno crederebbe se non vedesse che è doveroso credere»[5], cioè servono dei motivi che giustificano l’atto di fede. Nel concilio Vaticano I si afferma che «affinché l’ossequio della nostra fede fosse conforme alla ragione, Dio ha voluto che agli aiuti interiori dello Spirito Santo, si unissero gli argomenti esterni della sua Rivelazione, cioè gli interventi divini, come sono principalmente i miracoli e le profezie che dimostrano luminosamente l’onnipotenza e la scienza infinita di Dio e sono segni certissimi della divina Rivelazione e adatti all’intelligenza di tutti». Secondo la religione cattolica quindi questa scelta, questa decisione non è un salto della ragione umana nel “buio”, ma l’uomo riceve un supporto nel credere proprio grazie a questi “argomenti esterni” (oltre ai miracoli ci sono anche le profezie) che dovrebbero rendere l’atto di fede più semplice, “ragionevole”. Nel complesso dunque i miracoli costituiscono una seria prova della credibilità del messaggio cristiano: non a caso al concilio Vaticano II la Costituzione dogmatica Dei Verbum ribadisce che ogni aspetto dell’esistenza terrena di Gesù, ivi compresi i miracoli, contribuisce a compiere e a completare la Rivelazione di Dio agli uomini. Di conseguenza, per giungere alla fede non si può non tener conto dei miracoli compiuti da Gesù, concetto questo ribadito con fermezza al concilio Vaticano I, dove nel documento Dei Filius si afferma perentoriamente che «Se qualcuno dirà che i miracoli non sono possibili […] o che i miracoli non possono mai essere conosciuti con certezza, né servire per provare efficacemente l’origine divina della religione cristiana: sia anatema!»[6].
Alessandro di Marco
1 Si veda l’episodio del miracolo del cieco nato (Gv 9, 1-5), in cui i farisei interrogano Gesù chiedendogli se il male che lo affligge dalla nascita è conseguenza di un peccato commesso da lui o dai suoi genitori.
2 Una tecnica usata spesso dai negatori del miracolo è quella di rinviare ad un futuro indeterminato la spiegazione di un evento per il quale al momento non si ha risposta. Si dice “oggi non lo sappiamo, ma i progressi della scienza un giorno ce lo spiegheranno”. È vero che le scienze empiriche sono una forma di conoscenza in divenire, sempre perfettibile, per cui sicuramente è possibile rispondere domani ai quesiti dell’oggi, tuttavia alcuni eventi (si vedano i miracoli di Lourdes, o quelli dei processi di beatificazione o canonizzazione su cui torneremo con un intervento apposito) presentano dei caratteri di eccezionalità oggettiva, immediata.
3 Gv 3,2.
4 M. Blondel, Lettera sull’apologetica, Queriniana, 1990.
[5] Cit. in A. Locatelli, Tra miracolo e miracolismo: la fede ha bisogno del miracolo?, in «Credere oggi», 94, pp. 101-113, qui 108.
[6] Conc. Vat. I, cost. dogmatica Dei Filius sulla divina rivelazione, c. 3, can. 4.
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