Ma quanto c’è di religiosamente vero in questa affermazione?
Secondo quali principi cristiani possiamo dimostrare l’autenticità della relazione tra noi, che viviamo ancora su questa terra, e le persone che ci attendono al di la della morte?
Padre Valerio Mauro, docente di Teologia Sacramentaria ci aiuta a capirlo.
“Sul versante della fede cristiana è decisiva l’esperienza dei discepoli di Gesù, che hanno visto e incontrato vivo quel Gesù che avevano riconosciuto come maestro e visto morire sulla croce”.
E’ Gesù risorto, dunque, che è stato già nel regno dei morti, a parlarci della comunione che lega noi a chiunque sia morto in grazia.
Gesù appare a Maria e agli Apostoli riuniti nel Cenacolo, tanto per cominciare; appare ai discepoli di Emmaus, ma poi scompare.
“Presenza e assenza del Risorto sono unite in modo paradossale, ma proprio questo paradosso è l’indice della provvisorietà della nostra esistenza, in cammino verso quella definitiva che riceve il nome di «vita eterna», dono assoluto di Dio. Il punto capitale è che questa vita è segnata in modo unico e definitivo dal Signore Gesù, colui che è via verità e vita (Gv)”.
Ricordiamo che, lo stesso Gesù, aveva detto al ladrone pentito che sarebbe stato con lui in Paradiso: “in comunione con la sua stessa vita. Questa promessa è per ognuno di noi, se ci lasciamo coinvolgere dal Vangelo di Gesù: la comunione di vita definitiva e fondamentale è con lui, il Risorto dai morti. (…) La comunione perfetta con i nostri cari è in Cristo e si realizzerà nella compiutezza del Regno, quando Dio sarà tutto in tutti (1Cor 15,22-28). Nell’attesa di questa comune «beata speranza», la Chiesa crede in una comunione che ci accomuna anche con coloro che sono già morti in Cristo e «continuano a compiere con gioia la volontà di Dio in rapporto agli uomini e all’intera creazione”, come sottolinea anche il Catechismo della Chiesa Cattolica, 1029.
Antonella Sanicanti
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