La volontà di portare avanti la causa per innalzare Don Peppe Diana agli onori degli altari. “Dobbiamo far emergere e far conoscere a tutti la sua figura” – ha commentato il Vescovo della Diocesi di Aversa.
Un’affermazione che segue il fermo al processo di Beatificazione di Don Peppe Diana, il sacerdote di Casal di Principe ucciso dalla camorra.
In un momento in cui il mondo lotta contro la pandemia da Coronavirus, tutto il resto sembra fermarsi. Ma la preghiera è l’unica cosa che non può fermarsi mai, poiché, come ci ha detto Papa Francesco, “è l’ossigeno della nostra vita”.
E questo lo sapeva bene anche don Giuseppe Diana, per tutti “don Peppe”, prete anticamorra, ucciso a Casal di principe, in provincia di Caserta, nel 1994, il 19 marzo, giorno del suo onomastico. Un sacerdote che ha donato la sua vita per la comunità che gli era stata affidata, per il territorio nel quale viveva. E proprio la sua terra ha chiesto, prima l’avvio e poi, oggi, la ripresa del suo processo di beatificazione. Causa che si è interrotta da qualche tempo.
In un’intervista a La Repubblica, Monsignor Angelo Spinillo, Vescovo della Diocesi di Aversa, è tornato a parlare di Don Peppe Diana, a pochi giorni dalla decisione del Santo Padre di portare avanti il processo di Beatificazione di Rosario Livatino, il giudice ucciso dalla mafia a soli 37 anni: “Posso solo dire che l’impegno non è tanto quello di arrivare necessariamente ad una beatificazione di don Giuseppe Diana, ma certamente quello di poter fare emergere sempre di più la ricchezza di vita della persona sia a livello sociale che a livello vocazionale”.
A 27 anni dalla sua morte, la causa di beatificazione di Don Peppe viaggia a rilento: “Marcia lentamente perché avevamo in mente di mettere insieme un gruppo che studiasse queste cose, perché forse è più una ricerca storica” – commenta a La Repubblica, Monsignor Spinillo.
E fra le cause di questa lentezza, la morte del coordinatore del “Comitato Don Diana”, artefice e fautore delle ricerche delle testimonianze per la causa di beatificazione del sacerdote.
“Don Peppe aveva uno stile, un modo di fare molto schietto. Si poneva in maniera diretta che in qualche modo scomodava qualcuno e non apriva facilmente ad un dialogo” – continua il Vescovo di Aversa. Ed in effetti, don Peppe era così.
Non accettava nel modo più assoluto che la sua terra fosse tutta nelle mani della camorra, che nessuno potesse alzare la testa e che tutti dovessero sottostare. Questa è stata la sua condanna a morte.
Don Peppe era così: gioioso, allegro, sempre, nonostante sapeva benissimo che la camorra locale lo aveva preso di mira. La sua lettera, “Per amore del mio popolo, non tacerò”, era una vera e propria denuncia contro coloro che stavano “sporcando, non solo il territorio, ma anche la Chiesa con la loro falsa devozione”. Era il Natale del 1991, quando questo documento, scritto a più mani e anche da altri sacerdoti del circondario, fu distribuito ai fedeli, anche a quelli che “erano affiliati”.
“Siamo preoccupati. Assistiamo impotenti al dolore di tante famiglie che vedono i loro figli finire miseramente vittime o mandanti delle organizzazioni della Camorra. Come battezzati in Cristo, come pastori della Forania di Casal di Principe ci sentiamo investiti in pieno della nostra responsabilità di essere segno di contraddizione” – scriveva don Peppe.
Ma fu l’inizio e il segno della sua condanna a morte. Una morte che, per la camorra, doveva esser un monito per tutti, perchè nessuno più osasse alzare la voce contro di loro.
Era il 19 marzo del 1994. Don Peppe aveva da poco aperto le porte della sua chiesa, quella di San Nicola di Bari a Casal di Principe. Sono le 7.20 del mattino, di lì a poco avrebbe celebrato la Santa Messa. Ma era il giorno del suo onomastico e, per questo motivo, si reca al bar per festeggiare con alcuni suoi parrocchiani che, vedendolo arrivare, gli si fanno incontro per gli auguri.
Ma qualcuno era lì ad osservarlo da lontano, pronto ad agire.
Don Peppe fu freddato da alcuni colpi di pistola al volto, sparati da un giovane killer, proprio alle 7.30 del 19 marzo 1994, pochi minuti prima di celebrare la Messa, mentre era in sacrestia a prepararsi.
Una morte che lasciò di sasso tutti. Papa Giovanni Paolo II, durante l’Angelus del 20 marzo disse: “Nel deplorare questo nuovo efferato crimine, vi invito a unirvi a me nella preghiera di suffragio per l’anima del generoso sacerdote, impegnato nel servizio pastorale alla sua gente.
Voglia il Signore far sì che il sacrificio di questo suo ministro, evangelico chicco di grano caduto nella terra, produca frutti di piena conversione, di operosa concordia, di solidarietà e di pace”.
Un sacerdote che ha donato tutto se stesso per i ragazzi, per gli scout, per i giovani del seminario. Che ha donato la sua vita per il riscatto di un popolo. Oggi, il seme da lui gettato, non è andato perduto. A Casal di Principe esiste una casa fondazione, proprio su di un terreno e in un bene sottratto alla camorra: “Casa don Diana”.
Qui, ogni anno, il 19 marzo, giovani, ragazzi, scout, alunni, insegnanti, genitori, cittadini si riuniscono e danno voce e ricordo ad un uomo che ha fatto della sua vita un messaggio d’amore e di speranza per la sua città. Ogni anno, proprio il 19 marzo, la Regione Campania indice la “Giornata della Legalità”, in memoria di tutte le vittime innocenti della camorra.
Fonte: repubblica.it
ROSALIA GIGLIANO
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