C’è una nuova frontiera della bioetica che, se valicata, rischia di scoperchiare l’ennesimo vaso di Pandora di dilemmi morali e ricadute antropologiche molto pesanti.
Il trapianto d’utero è una realtà ormai da qualche anno. Lo scorso settembre, a Catania, è nata la prima bambina da madre trapiantata.
Alla fine del 2021, i trapianti di utero realizzati in tutti il mondo si attestavano intorno ai 90, dei quali più della metà (una cinquantina, per la precisione), hanno permesso alle beneficiarie di partorire.
Una questione di uguaglianza?
Una benedizione, dunque, per il legittimo desiderio di maternità di tante donne e un incentivo, sia pur minimo, alla crescita demografica. Non c’è rosa senza spine, tuttavia. Il nodo etico sta infatti nella possibilità di trapiantare l’utero anche a uomini transgender, giunti ad una certa tappa della loro transizione ormonale.
Il primo bambino nato da utero trapiantato è venuto alla luce in Svezia nel 2014. Mats Brännström, ginecologo dell’Università di Göteborg che otto anni fa, contribuì a questo miracolo, ha dichiarato di ricevere numerose e-mail con richieste di informazioni da parte di maschi transgender. Secondo il professor Brännström, per il trapianto di utero su pazienti nati uomini, ci vorranno “cinque o dieci anni”, sebbene non siano state fatte “abbastanza ricerche”.
Anche nel Regno Unito, c’è fermento e interesse intorno a questa possibile “innovazione”. I bioeticisti Stephen Wilkinson e Nicola Williams, dell’Università di Lancaster, ne stanno valutando le implicazioni morali e avrebbero già individuato “ragioni basate sull’uguaglianza, sufficienti per prendere in considerazione i trapianti di utero”.
Wilkinson e Williams menzionano una loro indagine condotta su 182 donne transgender (maschi alla nascita), secondo la quale “più del 90% degli intervistati ha indicato che un trapianto di utero potrebbe migliorare la qualità di vita e alleviare i sintomi della disforia di genere, e la maggior parte concorda sul fatto che la capacità di gestazione e parto aumenterebbe la percezione della propria femminilità”.
Un’altra ricercatrice della Lancaster University Laura O’Donovan ha rilevato che, dal momento in cui il trapianto d’utero diventasse praticabile, rifiutarlo diventerebbe un’infrazione dell’Equality Act del 2010, in forza del quale “sarebbe illegale discriminare in base al sesso di qualcuno”.
È progresso, smembrare il corpo umano per un capriccio?
Se davvero un giorno diventerà possibile trapiantare l’utero nel corpo di una persona nata maschio, rendendovi possibile una gravidanza, ci ritroveremmo lungo un pendio sempre più scivoloso. La nuova tecnica andrebbe ad affiancarsi alla fecondazione artificiale e alla “gestazione per altri”, svincolando sempre più la riproduzione dall’atto procreativo.
Se la bioetica “progressista” considererebbe una discriminazione non assecondare le persone nella loro identità di genere e non permettere loro di cambiare sesso (magari utilizzando organi come l’utero a mo’ di protesi o di “pezzi di ricambio”), la bioetica “conservatrice” parte da un dato di realtà a monte, che consiste nel disagio psicologico delle persone con disforia di genere.
Rispettare la natura così come ci ha fatto o assecondare i propri istinti? È legittimo e conveniente operare scelte in grado di incidere in modo così radicale e irreversibile sul proprio corpo, in nome di umori e sentimenti passeggeri?
Scimmiottare la Creazione
“Una buona fetta di persone trans pensano che mutando il proprio aspetto e il proprio fisico supereranno il disagio interiore di sentirsi in un corpo sbagliato tuttavia la ferita nell’identità non si cura “cambiando” sesso, ma accettandosi per come si è, sesso genetico compreso”, scrive il bioeticista Tommaso Scandroglio sulla Nuova Bussola Quotidiana.
Secondo lo studioso, “l’utero in affitto è l’anticamera del trapianto di utero per persone trans, è il precedente ideologico al servizio della teoria del gender. Infatti, l’utero in affitto separa la gestazione dalla maternità” e rende l’utero un “mero involucro per la generazione, una incubatrice di carne, uno strumento di riproduzione che può essere usato anche da chi non è madre genetica, né da chi crescerà il figlio che nascerà”.
È la nemesi del femminismo di cinquant’anni fa che rivendicava le differenze di genere fino all’estrema conseguenza delle donne che “gestivano” l’utero a loro piacimento. La conseguenza terminale di quel processo è stata l’indifferenziazione sessuale, per cui non importa se sei nato uomo o donna, visto che, in qualche modo, potrai comunque partorire dei figli.
“L’utero si trasforma in mezzo per la maternità di chiunque, strumento massimamente inclusivo ed organo per l’affermazione della propria identità, vera o presunta che sia”, osserva ancora Scandroglio. E l’idea stessa di poter “smontare” pezzi del corpo umano, assemblandoli su altri corpi alla maniera di Frankenstein, diventa “l’autopoiesi dell’uomo, tentativo grottesco di mimare la Creazione”, conclude il bioeticista.