I numeri rilevati dalla CEI mostrano la realtà delle nuove vocazioni in Italia, ed evidenziano problematiche ma altresì speranze. C’è infatti un metodo molto preciso a cui il Vangelo invita affinché vengano nuovi operai per la messe del Signore.
I numeri, come al solito, mettono in luce quanti nel nostro Paese, oggi, decidono di intraprendere una strada di donazione piena al Signore. Importante è guardarli come ci ha invitato a fare il Signore.
La vocazione è sempre qualcosa di intimo, personale, profondo, ma anche degli aspetti sociali, che prendono forma nei numeri dei nostri seminari e che invitano quindi a una riflessione profonda sulla fede nella nostra società.
La realtà mostrata dall’Ufficio nazionale per la pastorale della vocazioni della Cei, come si poteva immaginare, è di un calo degli ultimi cinquant’anni. Le statistiche parlano di una diminuzione di oltre il 60% passando dai 6.337 del 1970 ai 2.103 del 2019. Il 28% di questo calo è avvenuto nei dieci anni che vanno dal 2009 al 2019.
Nei 120 seminari maggiori d’Italia attualmente vivono 1.804 seminaristi diocesani, di cui la maggior parte in Lombardia, 266 in tutto, pari al 15% del totale, oppure nel Lazio, dove sono 230, il 13%. Al contrario, la la Basilicata e l’Umbria sono le regioni con la numerosità assoluta più bassa, rispettivamente con 26 seminaristi e 12.
Diverso è il calcolo se si fa un confronto con gli abitanti del territorio, perché in quel caso le regioni in testa sono la Calabria con 29 seminaristi e la Basilicata con 23 seminaristi ogni 500.000 abitanti. Ultima è l’Umbria con 7 seminaristi diocesani.
Il dato preoccupante è però quello che ci dice che in mezzo secolo le nuove vocazioni in forza alla Chiesa cattolica sono diminuite di oltre la metà, e che non può essere spiegata solamente con l’inverno demografico, che tuttavia il nostro Paese sta vivendo.
“Se mancano le ‘vocazioni’ non è un problema sociologico, o non soltanto. Somiglia più al sintomo di una malattia della quale trovare una cura”, è quanto afferma don Michele Gianola, sottosegretario della CEI e direttore dell’Ufficio nazionale per le vocazioni dell’organismo ecclesiale.
“Chiudersi, difendersi, scansare ogni prova, immunizzarsi contro la vita non sono sicuramente orizzonti nei quali può fiorire la vita – e la vocazione – che ha bisogno di aprirsi, entrare in contatto, affrontare le sfide, correre alcuni rischi. L’Italia è da evangelizzare come è da evangelizzare il cuore di ciascuno, sempre”, è quanto osserva il religioso. Il cuore è il primo “luogo” da dove ripartire.
Tra gli altri aspetti emersi dalla ricerca, c’è quello dell’età media dei giovani che frequentano i seminari maggiori è pari a 28,3 anni. Del fatto che il maggior numero di seminaristi ha un’età compresa tra i 26 e i 35 anni, seppure con differenze territoriali.
C’è una tendenza marcata a provenire da famiglie con più figli, mentre cala il numero di giovani che provengono da studi classici. Circa una metà dei seminaristi ha frequentato l’università, e lo stesso il numero di quanti hanno lavorato, poco inferiore.
Per quanto riguarda la provenienza geografica, il 10% dei seminaristi proviene da altre parti del mondo, in particolare dall’Africa, continente maggiormente rappresentato. In particolare da Madagascar, Nigeria, Camerun e Costa d’Avorio. Mentre uno su cinque viene da altri Paesi europei, in particolare da Polonia, Albania, Romania e Croazia.
“La vocazione è un’opera artigianale che ha bisogno dell’apporto di molti per fiorire. Non riguarda solo i tempi più dedicati al discernimento, come il seminario, ma intreccia il lavoro di molte mani”, ha spiegato ancora don Gianola.
In sostanza, quello che spiega don Gianola è che i numeri servono per dirci che la questione vocazione è qualcosa di cui prendersi cura. Mentre a chi sostiene che non nascano più vocazioni perché nelle famiglie italiane si prega sempre di meno, o c’è meno attenzione alla fede, il religioso spiega che lo sguardo che i fedeli bisogna assumere è quello di Gesù. E soprattutto bisogna ascoltare la strada che ci ha indicato: la preghiera, e il non perdere la speranza.
“Può essere che la famiglia crei uno spazio adatto per fare sorgere le vocazioni dei propri figli”, ha spiegato don Gianola. “L’invito a pregare per le vocazioni è la radice, perché sta nell’insegnamento del Vangelo: Nostro Signore ha invitato a fare questo. Dobbiamo chiedere al Padre il dono di nuovi operai per la sua messe. Questo riguarda tutte le famiglie ma anche tutti i credenti in generale. Quello che possiamo fare, di sicuro, per le vocazioni è pregare. Perché questo ci dà la possibilità di entrare in sintonia con il cuore del Padre, che certamente non farà mai mancare gli operai nella sua Chiesa”.
In sostanza, ha concluso il religioso, “nella preghiera, in famiglia o nelle comunità parrocchiali, questa invocazione è quello che ci fa entrare più in sintonia con il cuore di Dio. E ci fa riconoscere cosa c’è di buono già oggi. Solo a partire da qui possiamo riconoscere possibilità nuove per il domani, perché tutto comincia sempre, nell’ottica di Dio”.
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