I dieci proverbi che ingannano.
E se alcuni lasciti delle saggezza popolare fossero degli inganni, delle indicazioni capaci di portarci fuori strada? Proviamo a pensare a questi proverbi famosi: “Chi fa da se fa per tre”, “Fidarsi è bene non fidarsi è meglio”,“Chi si fa gli affari suoi campa cento anni”, “Meglio un giorno da leone che cento da pecora”, “Meglio un uovo oggi che una gallina domani”, “Natale con i tuoi, Pasqua con chi vuoi”, “Ogni lasciata è persa”, “Chi pecora si fa, il lupo se la mangia”, “Chi nasce quadro non può morire tondo”, “Gli ospiti sono come il pesce, dopo tre giorni puzzano”. Sono dieci, e sono così familiari da non ricordarci neanche quando li abbiamo uditi la prima volta. E la prima volta era come se li avessimo conosciuti da sempre. Possiamo dire che sono nati prima di noi. Sembrano portare un messaggio di scetticismo, un’amarezza passata di generazione in generazione: una disperazione antica quanto il mondo, più antica del mondo. Hanno cambiato abito, ma sono sempre gli stessi. Sono talmente comuni, banalmente prossimi ai nostri affanni quotidiani, che ci sembrano innocui. Li ripetiamo talvolta, li abbiamo dentro, divertono noi e gli altri perché riempiono un vuoto di pensiero o di azione. Ci hanno allevati alle maniere spicce, ci hanno impedito di riflettere. Hanno voluto che facessimo spallucce di tutto, tirando diritti per la nostra strada, senza accorgerci che era una strada sbagliata. Sono stati come corvi che nei nostri pensieri spiluccavano i semi dei buoni propositi, come terreno riarso che faceva scivolare via i nostri progetti o spine sui nostri pensieri migliori.
Ci hanno bisbigliato di lasciar perdere. Li abbiamo incontrati uno alla volta e non ci siamo accorti del loro pessimo aspetto. Ma ecco che li vediamo uno accanto all’altro, questi proverbi, e ci sembrano i brutti ceffi che sono: una ciurma in procinto di ammutinarsi e destinata al naufragio. “Chi fa da se fa per tre”: sei capace di tutto, ci dice questo proverbio, non hai bisogno di nessuno. Non chiedere, perché sarebbe come ammettere di aver bisogno degli altri: è un umiliazione. “Fidarsi è bene, non fidarsi è meglio” ci sussurra l’altro proverbio. C’è del male nel prossimo, sembra dirci. Stai attento, il male è prevalente nell’uomo, non scommettere su di lui, non vale la pena. “Chi si fa gli affari suoi campa cento anni”: non distrarti. Se sei in cammino per Gerico, affrettati, non prestare cura agli estranei, fossero anche sul ciglio della strada, in fin di vita. “Meglio un giorno da leone che cento da pecora”: non porgere l’altra guancia, odia il tuo nemico, ci ammonisce questo adagio. Non sopportare, non chinare il capo, fai vedere chi sei dai, una lezione a chi ti dà noia. “Meglio un uovo oggi che una gallina domani” abbiamo sentito dire con accondiscendenza. Pensa ad oggi ci dicono queste parole, non aspettare, perché il mondo è subito e non devi seminare alcun campo, non c’è nulla e nessuno da attendere. E sembra fare il paio, quel proverbio, con quest’altro: “Natale con i tuoi, Pasqua con chi vuoi”: la festività più importante è quella in cui ci scambia i doni, sembra volerci dire, non quella dove il dono è il Risorto. Ci danno lezioni, i proverbi, e non potava mancare quella sulla sessualità. “Ogni lasciata è persa”: guarda all’amore come una preda da inseguire, velocemente, con ferina determinazione, per il piacere di ricordare volti e voci indistintamente, al punto da non tenerne nessuno stretto sul tuo cuore. “Chi pecora si fa, il lupo se la mangia” torna a dirci un altro proverbio e sembra voglia indicarci l’abito che dobbiamo indossare: mai dimesso, mai mite, per non diventare prede a nostra volta. Come volesse indurci alla rassegnazione un altro dice “Chi nasce quadro non può morire tondo”: non tentare di cambiare te stesso, né gli altri. Sei come sei e ti basti. Non esiste Grazia che possa soccorrerti o rivoltare il tuo cuore come fosse un guanto: tu e gli altri siete segnati per sempre, fattene una ragione. “Gli ospiti sono come il pesce, dopo tre giorni puzzano” ci dice l’ultimo: metti un limite alla tua generosità, perché nessuno venne a piantare le tende in mezzo noi. Tutti sono nessuno, nessuno è Lui, e Lui non verrà per nessuno. Non attendere ospiti, perché non c’è alcun amore, nessun ritorno, nessuna misericordia infinita a cui dobbiamo guardare, ammirati, come stagni le stelle, compiacendoci di rifletterle nei nostri piccoli slanci quotidiani. Ecco dieci parole, come la zizzania. Come fossero state rimuginate, piene di rabbia, ai piedi del Sinai quando un uomo ne saliva le pendici e scendeva con dieci parole di salvezza. Una lotta che sembra combattersi da allora. Dieci parole contro dieci cattivi consigli. E dopo venne l’ultima parola, la parola nuova, che mette in fuga questa piccola infame legione di bisbigli e ci salva, come fu salvato l’uomo di Jerash.
D.C.
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