La Bosnia-Erzegovina, ben nota a tutti i pellegrini che si recano a Medjugorje, è un crocevia di tensioni sempre crescenti alimentate anche dall’influenza di potenze straniere.
Molti segnali fanno temere che i Balcani possano nuovamente precipitare nel caos della guerra. Ecco perché più che mai bisogna imbracciare le armi più potenti, il Rosario in primis. E pregare per strappare il miracolo di una pace che sembra allontanarsi a passi da gigante.
L’attenzione dell’opinione pubblica è totalmente attirata – o quasi – dall’escalation del conflitto tra Russia e Ucraina. Atteggiamento anche comprensibile, date le minacce sempre meno velate di impiego dell’arma atomica da parte di Mosca, gli spazi di negoziato sempre più ristretti e i ben noti riflessi della guerra sull’economia del nostro Paese (caro bollette e inflazione in testa).
Ma come spesso accade, guardare a quel che succede a migliaia di chilometri di distanza – complice la spasmodica tensione mediatica – porta a non accorgersi di quel che succede alle porte di casa.
È il caso dei Balcani, regione perennemente instabile, lacerata da tensioni sempre crescenti e terreno di competizione tra superpotenze (Usa, Russia, Cina, Turchia) impegnate a consolidare o a allargare la loro sfera di influenza geopolitica. Il che significa una lotta sempre più serrata per l’egemonia nella regione.
La situazione dei Balcani è stata l’oggetto di una lunga e approfondita analisi di Daniele Santoro sul numero di settembre della rivista “Limes” (alla quale rimandiamo chi volesse approfondire). Il titolo dell’articolo è più che eloquente: «I Balcani sono una bomba a orologeria». Uno degli esempi più eclatanti di questa situazione potenzialmente esplosiva è stata la crisi sul confine tra Serbia e Kosovo del 31 luglio scorso per la cosiddetta “guerra delle targhe”.
Un altro dei punti caldi nei Balcani è un Paese che, per ovvi motivi, sta a cuore ai pellegrini di Medjugorje: la Bosnia-Erzegovina. Forgiato dagli Usa di Clinton con gli accordi di Dayton del 1995, il Paese è una sorta di chimera basata su equilibri fragilissimi. La coesistenza tra le due entità principali, la Federazione di Bosnia-Erzegovina (croato-cattolica e musulmana) e la Repubblica Serba di Bosnia-Erzegovina (a maggioranza serba e cristiano ortodossa), è sempre più appesa a un filo.
Un assetto istituzionale che sembra non reggere più. A metterlo a dura prova sono soprattutto le velleità separatiste della Repubblica Serba. I serbi di Bosnia mai hanno digerito la condizione di partner di minoranza degli odiati musulmani. Questi ultimi a loro volta sono costretti a un matrimonio d’interesse coi croati che soprattutto i secondi sentono come sempre più asfissiante. Una spina nel fianco per la fragile entità confederale.
Già nel 2006 Milorad Dodik (l’attuale membro serbo della presidenza tripartita della Bosnia) propose un referendum per l’indipendenza della Repubblica Serba. E nei quindici anni successivi ha costantemente premuto sul pedale separatista, soprattutto sul piano retorico. Ma il linguaggio colorito dei proclami indipendentisti ha cominciato a assumere un volto più concreto lo scorso ottobre quando l’Assemblea della Repubblica Serba ha dato vita a una sua agenzia per l’approvvigionamento dei medicinali. Una reazione alla riforma del codice penale promulgata dall’Alto rappresentante per la Bosnia ed Erzegovina Vladimir Inzko (una figura di supervisione sulla pace nella Confederazione introdotta con gli Accordi di Dayton per normalizzare la situazione). I serbo-bosniaci hanno contestato vivacemente la riforma perché questa punisce col carcere il negazionismo sul genocidio di Srebrenica o la glorificazione dei crimini di guerra (serbi) avvenuti tra il 1992 e il 1995.
Secondo Limes è solo il primo tassello di una strategia che punta a una secessione per gradi della Repubblica Serba. Lo scorso 10 dicembre il parlamento serbo-bosniaco ha avviato formalmente le procedure (non vincolanti) per la fuoriuscita della Repubblica Srpska dalle forze armate, dall’intelligence, dal fisco e dalla magistratura della Bosnia-Erzegovina. E due mesi dopo il Parlamento serbo-bosniaco ha alzato ancora il livello della sfida con l’approvazione di un disegno di legge per istituire un sistema giudiziario parallelo a quello centrale, oltre a un provvedimento che consentirebbe alla Repubblica Serba di entrare in possesso degli immobili dello Stato bosniaco. La Corte costituzionale e l’Alto rappresentante li hanno invalidati entrambi.
Le due iniziative secessioniste avrebbero dovuto prendere carattere vincolante entro la prima metà di giugno. Ma alla vigilia della scadenza Dodik ha annunciato che sarebbero state posticipate di sei mesi. Per quale motivo? Per Limes la causa del rallentamento del progetto separatista sta nella dipendenza di Banja Luka (la capitale di fatto della repubblica serbo-bosniaca) dalla Russia. L’escalation secessionista dei serbo-bosniaci è stata ritardata dalle difficoltà incontrate dai russi nella guerra in Ucraina. Ma «la sensazione prevalente in Bosnia è che, nel caso in cui russi fossero riusciti a entrare a Kiev e a imporvi un governo fantoccio, la Repubblica Srpska avrebbe verosimilmente dichiarato l’indipendenza», scrive l’analista di Limes.
Non appare certo un caso che il passo in avanti verso la secessione compiuto il 10 dicembre dal parlamento serbo-bosniaco sia giunto otto giorni dopo l’incontro al Cremlino tra il presidente russo Putin e Dodik. Un incontro nel corso del quale Mosca ha assicurato – più o meno informalmente – il proprio appoggio alle pulsioni secessioniste dei serbo-bosniaci. Proprio alla Russia ha fatto una chiara allusione lo stesso Dodik a ottobre parlando di non meglio precisati «amici» pronti ad accorrere in aiuto della Repubblica Serba in caso di un intervento occidentale.
La secessione per il momento è rimandata – date le difficoltà di Mosca nell’aprire un altro fronte di confronto con l’Occidente – ma tutt’altro che accantonata. Il revanscismo serbo-bosniaco è stato solo messo tra parentesi. E nessuno pensa che la secessione dei serbo-bosniaci sarebbe incruenta.
La disintegrazione della Bosnia-Erzegovina scatenerebbe certamente un conflitto tra serbo-bosniaci e musulmani, col coinvolgimento di Serbia e Croazia nella crisi. Uno scenario dove si aprirebbe un nuovo fronte di scontro tra Stati Uniti, paesi della Nato e Russia. Senza sottovalutare il ruolo che potrebbe giocare la Turchia, che considera centrale la penisola balcanica (in particolare Sarajevo) per la sua strategia geopolitica.
In conclusione, si stanno preparando le condizioni per un conflitto che potrebbe sprofondare nuovamente la regione nel caos degli anni Novanta. Con conseguenze imprevedibili ma sicuramente nefaste. E con l’Italia inevitabilmente coinvolta nella crisi. Anche sul piano delle operazioni militari.
In Kosovo, un’altra zona in ebollizione, il nostro Paese infatti è presente col secondo contingente più numeroso (dopo quello Usa) nella missione Kfor.
Che fare contro la minaccia del caos? Chi crede sa che ci sono le certezze sempre insegnate dalla Chiesa. Prima fra tutte quella che ci dice che se è vero che Satana è il «principe di questo mondo» non è affatto il «signore della storia».
Infine la Madonna continua a indicarci che le armi più potenti sono quelle spirituali, che seguono logiche negate alle potenze mondane. Con la preghiera – in particolare il Santo Rosario – e i sacrifici si possono fermare anche le guerre. Anche le bombe a orologeria che rischiano di incendiare la polveriera dei Balcani.
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