Eugenio Scalfari è stato l’alfiere di una cultura “nei limiti della sola ragione” che considera Dio una creazione dell’uomo e esorcizza la morte con un attivismo febbrile.
Ma dietro a una corazza fatta – apparentemente – di un laicismo a prova di bomba e di certezze incrollabili, forse si agitava qualche inquietudine sul senso ultimo della vita.
Con Eugenio Scalfari, morto giovedì a 98 anni, se ne va certamente l’ultimo “grande vecchio” del giornalismo italiano. Polemista brillante, sfrontato e caustico, ha mescolato giornalismo e politica in maniera originale. Un marchio indelebile, non a caso, della sua creatura più importante: il quotidiano la Repubblica, fondato da Scalfari nel 1976 e spesso descritto come un “giornale-partito”.
Scalfari, inutile e anche ingiusto nasconderlo, è stato un formidabile e talentuoso avversario. Giornalista colto e erudito, dalla penna vivace e dalla scrittura fluviale. A suo agio anche come conversatore: puntuto, salace e arguto. In più poteva contare su spiccate doti manageriali, capace di confezionare prodotti editoriali innovativi e di successo. Riusciva a valorizzare le giovani leve giornalistiche integrandole all’interno del giornale, concepito di fatto come una sorta di “comunità di destino” (giornale-partito, ma anche giornale-famiglia).
Uomo di potere, giornalista, ideologo, manager, saggista. C’è chi ha detto anche affarista. Scalfari è stato un po’ tutto questo. Come pochi ha incarnato il mutevole “spirito del tempo”. «Uomo di convinzioni accese, ma temporanee», lo ha definito il noto giornalista Giancarlo Perna. «Sta sul filo del vento, da gran marinaio», ha detto di lui Indro Montanelli.
In effetti la sua biografia politica abbraccia praticamente tutto l’arco costituzionale (dal fascismo giovanile al filocomunismo degli anni Settanta, passando per il radicalismo pannelliano all’azionismo, negli anni Ottanta fu demitiano dopo essere stato eletto in parlamento nella file socialiste). Ma il cambio di bandiera è un’esperienza comune – forse il destino – anche ad altri “giornalisti politici”.
Dalla seconda metà degli anni Settanta in poi Scalfari ha messo i suoi tanti talenti al servizio della promozione di quel nichilismo gaio, “sazio e disperato” (ma per nulla inquieto) tanto in voga oggi. Un nichilismo in pillole, somministrato a dosi giornaliere per mezzo della carta stampata. Col suo giornale-partito Barbapapà (com’era anche chiamato) è diventato il portabandiera di una ideologia neoborghese prontamente battezzata “scalfarismo”. Così Repubblica, la creatura scalfariana per eccellenza, ha sposato tutte le “battaglie di civiltà” per traghettare l’Italia “arretrata” verso quella Trinità radicale, come l’ha chiamata Vittorio Messori, composta da divorzio, aborto e eutanasia (alla quale oggi si sono aggiunti matrimonio gay, utero in affitto e tante altre “conquiste” moderne).
Una chiara scelta di campo a favore dell’edonismo “rasoterra” che assolutizza la felicità individuale e gode della vita terrena senza particolari inquietudini. Anche di recente Scalfari ha confessato al filosofo cattolico Massimo Borghesi di non essere «assillato» dal mistero della vita. Le sue risposte Scalfari, apparentemente, se le era date da tempo.
Senza alcuna pretesa di essere esaustivi, un esempio di quali fossero queste risposte lo fornisce L’uomo che non credeva in Dio, libro del 2008 dove Scalfari riconosce che l’uomo, a differenza dell’animale, è un essere assediato dalla paura della morte.
Scalfari sa che la vita è un viaggio breve e che l’uomo ha bisogno di trovare un senso alla sua esistenza. Ma rifiuta l’idea che ci sia un senso ultimo, al di là dello sguardo dell’uomo e della sua ragione. Per Scalfari l’uomo esorcizza la morte, parole sue, con un «senso limitato» o un «segmento di senso»: cogliendo l’attimo fuggente (cita il “carpe diem” oraziano), ma anche col lavoro, l’ascesa sociale, le opere, il potere, l’amore. Tutti «infiniti modi – scrive l’autore di La sera andavamo in Via Veneto – di procurarsi piacere, compreso quello che deriva dal piacere procurato agli altri, la “caritas”, l’amore del prossimo».
Anche Dio è solo una scappatoia inventata dall’uomo per sfuggire alla Nera Signora, dice Scalfari: «La verità è solo nel nostro sguardo. Perciò non c’è bisogno di uccidere Dio. Dio muore nel momento stesso in cui la sola verità pensabile – e relativa – si colloca nello sguardo dell’uomo. Dio muore nel momento in cui scopriamo d’averlo inventato per sfuggire la paura».
Insomma, un perfetto esempio di “pensiero debole”. Un orizzonte minimalistico per il quale l’incubo della morte si scaccia col “fare” qualcosa: concentrandosi su un senso che occupa soltanto un segmento della nostra vita. Come focalizzarsi su un risultato, su un progetto, su un obiettivo, una persona. E una volta raggiunto quell’obiettivo, quel segmento di senso si esaurisce, come svanendo nel nulla. Allora occorre passare a un altro obiettivo, a un’altra persona, a un altro piacere.
Il fare come narcosi. Una soluzione che ricorda molto quella che il trappista Jean-Baptiste Chautard definiva «eresia dell’azione». Fare, fare, fare per dimenticare. È l’apoteosi di Marta, il peccato della quale non consiste tanto in un “fare” che si contrappone al “contemplare”, quanto in un fare senza centro. Un fare, cioè, senza lo sguardo puntato su Dio, principio e fondamento di tutte le cose e, di conseguenza, anche di tutto l’agire.
«Tutti questi esorcismi contro il pensiero della morte hanno il loro fondamento nel fare», spiega il fondatore di Repubblica. «Escludono la contemplazione passiva, la quale è possibile soltanto se siamo sorretti non già da segmenti di senso, ma dalla fede nel senso ultimo, la credenza nell’oltremondo, la salvezza finale che ci porterà al cospetto del Creatore».
La paura della morte, per Scalfari, si supera con mezzi naturali: col debordare della vitalità umana e coi segmenti di senso che la natura ci fornisce, «insiti nella nostra naturalità di animali socievoli, coscienti, abili, operosi».
Il pensiero della morte è al centro anche di Incontro con Io (1994), dove si leggono pensieri come questo: «Noi lottiamo con la morte durante tutta la vita. Non c’è istante che l’immagine di lei ci abbandoni». L’Io (scritto volutamente con la maiuscola da Scalfari) cerca di scacciare il pensiero della morte con la scienza, che gli dà il dominio della natura, e inventandosi Dio, cioè «quell’altro sé stesso che il suo pensiero ha creato per sconfiggere il tempo e la morte». Per Scalfari è Io, cioè l’uomo, ad aver creato Dio. E la religione non è altro che un atto di autoadorazione da parte dell’uomo.
Negli ultimi anni della sua vita, com’è noto, Scalfari ha iniziato un dialogo con papa Francesco (dopo quello col cardinale Carlo Maria Martini). Con tanto di “interviste” dove riferiva al grande pubblico di questi dialoghi attribuendo spesso e volentieri al Papa pensieri che verosimilmente non aveva mai espresso.
Impossibile dire cosa sia passato per la mente – e soprattutto per il cuore – dell’ultimo grande vecchio del giornalismo italiano. Forse con l’approssimarsi della fine il vitalismo non gli bastava più. Aveva sentito, nel profondo, l’insufficienza di quel «senso limitato» col quale esorcizzare la morte? Si sentiva attirato da quel «senso ultimo» che aveva sempre escluso? Era tentato dall’Assoluto? Bramava l’incontro col Creatore? Domande e risposte, avvolte nel mistero di un’anima, solo a Dio note. Dal canto nostro non possiamo che pregare e sperare.
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