L’eutanasia procura davvero una morte rapida e indolore? Non è affatto di questo parere la dottoressa Delia Sánchez, luminare internazionale di bioetica, che avverte: non è vero che si tratta di una procedura “veloce, indolore e senza complicazioni”.
Delia Sánchez è un medico. In Uruguay – e non solo – è uno dei principali riferimenti nel campo della bioetica.
In questi giorni è stata intervistata dal portale Aleteia (l’intervista si trova nella sezione in lingua spagnola).
La dottoressa Sánchez può vantare un curriculum di tutto rispetto: è stata professoressa e coordinatrice dell’unità accademica di bioetica dell’Università della Repubblica (Udealri) di Montevideo e membro del Comitato Internazionale di Bioetica dell’Unesco. Attualmente fa parte del Comitato Etico per la Ricerca della Facoltà di Medicina (Udealri) e del Comitato di Bioetica dell’Istituto Nazionale di Donazione e Trapianti. Autrice di numerose pubblicazioni, è anche membro della Rete Latinoamericana di Bioetica e autrice di numerose pubblicazioni. Oltre che in Bioetica, è laureata in Sanità pubblica e in Medicina di comunità.
Nell’intervista ha reso noti i risultati di un’indagine sull’eutanasia e sul suicidio assistito. La ricerca mostra che una percentuale di pazienti soppressi attraverso sostanze letali muore con angoscia e sofferenza.
In buona sostanza, non sembra possibile garantire che la morte per eutanasia avvenga in maniera rapida, indolore, senza traumi. “Credo che coloro che sostengono l’eutanasia lo facciano nella convinzione di apportare un beneficio a un paziente che lo desidera e si trova ad essere soggetto a sofferenze intollerabili”, afferma la dottoressa Sánchez. Così “si sollevano sempre più voci che propongono questo percorso anche a chi è “stanco di vivere”, come nel caso dei Paesi Bassi che includono le “malattie legate alla vecchiaia” come motivazione valida”.
Una delle motivazioni più frequenti – se non la principale – di chi vuol morire anzitempo è quella di non prolungare la sofferenza. E chi desidera smettere di soffrire spera, pertanto, che il procedimento sia rapido, indolore e senza complicazioni.
Ma le cose non sono così lineari, spiega la dottoressa uruguaiana: “Il problema è che, sebbene vi sia molta meno ricerca di quanto auspicabile sugli effetti negativi delle procedure di eutanasia nei paesi in cui questa è legale, gli studi condotti sugli eventi avversi segnalati, che si ritiene essere sottostimati, indicano che in una certa percentuale le cose non stanno così”.
Sánchez ricorda un ben noto studio olandese del 2000 che riporta delle interviste a 1.047 medici olandesi ai quali è stato chiesto se avessero partecipato al suicidio assistito o all’eutanasia di qualche paziente. Ebbene, nei 649 casi (535 di eutanasia e 114 di suicidio assistito) in cui i dottori hanno risposto di aver aiutato a morire sono stati segnalati dei problemi tecnici e delle complicazioni cliniche.
Nel 5% dei casi ci sono stati dei problemi tecnici, quasi tutti legati a problemi con l’area del punto di iniezione e a altre complicazioni cliniche (nel 4 per cento dei casi), mentre il 7% ha incontrato difficoltà nel completare la procedura.
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Le complicazioni riscontrate riguardavano spasmi, vomito, cianosi (e altre ancora non specificate). E quando si parla di problemi di procedura ci si riferisce a morti sopraggiunte in un tempo più lungo del previsto, anche 14 giorni dopo la somministrazione del farmaco (che in greco significa sia medicina che veleno). In cinque casi alcuni pazienti si sono anche risvegliati dal coma.
Parliamo quindi di procedure che non mantengono le promesse di efficacia perché, nonostante la varietà di farmaci adottati, “non esiste un meccanismo che garantisca realmente la mancanza di eventi avversi”, sottolinea l’esperta di bioetica. Le linee guida cliniche per l’eutanasia adottate dalla Colombia – primo paese latinoamericano ad aver legalizzato il suicidio assistito – propongono una sequenza di benzodiazepine (con proprietà sedative e ansiolitiche), barbiturici o equivalenti e miorilassanti (anche se in realtà si tratta di farmaci paralizzanti).
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“Considerando le complicazioni sopra menzionate”, commenta la dottoressa latinoamericana, “si può immaginare l’angoscia che può provare una persona che, ad esempio, si è svegliata dal coma ma è paralizzata e quindi non può comunicare ciò che le sta accadendo”.
Tutto questo, prosegue l’esperta, “mi ricorda i problemi riscontrati negli USA con le iniezioni letali nelle persone condannate a morte; una procedura alla quale nessun medico di quel paese potrebbe partecipare per motivi etici. In alcuni casi è stato segnalato che la persona giustiziata ansimava o aveva degli spasmi”.
Questo fatto ha portato alcuni medici ad analizzare le autopsie di alcuni condannati soppressi con una iniezione letale. Gli esami hanno rivelato la presenza di edemi polmonari. La morte quindi includeva l’asfissia a causa della schiuma prodottasi nei polmoni. Un’inchiesta condotta negli Usa dalla National Public Radio ha accertato questo genere di morte in oltre l’80% delle autopsie eseguite su persone giustiziate in questa maniera.
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La dottoressa entra più nel dettaglio e spiega che “la combinazione di farmaci utilizzata per l’iniezione letale in California nel 2006 comprendeva il tiopentale (un barbiturico), il pancuronio (un rilassante muscolare che induce la paralisi) e il cloruro di potassio, che induce l’arresto cardiaco”.
Una spietata ricetta di morte, tanto da spingere un prigioniero destinato a essere ucciso con quella combinazione di farmaci a “presentarsi in tribunale sostenendo che l’uso di pancuronio e cloruro di potassio costituiva “una punizione crudele e insolita” (la definizione di tortura)”.
Ma la cosa rilevante, fa osservare la bioeticista, è che il protocollo usato per le condanne a morte “non differisce molto da alcuni di quelli utilizzati nelle procedure di eutanasia”.
Viene da chiedersi se il problema con l’eutanasia sia solo “tecnico”. Se fossimo sicuri che il farmaco è efficace e sicuro non ci sarebbe nulla da obiettare?
“Senza dubbio”, risponde Sánchez, “siamo di fronte a due problemi diversi ma collegati. La prima questione etica è se sia valido provocare volontariamente la morte di un’altra persona in qualsiasi circostanza; o in circostanze eccezionali (su sua richiesta e in una situazione di intollerabile sofferenza)”.
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E si badi che non si sta parlando di “un dolore intollerabile, perché in questo momento la maggior parte dei casi di dolore è gestibile, ma di sofferenza, che è qualcosa di più totalizzante”. Ciò detto, alla prima questione la bioeticista risponde che “il rispetto per la dignità umana mi impedisce di uccidere un altro essere umano”.
Mentre il secondo problema con cui deve confrontarsi “chi risponde che è possibile porre fine alla vita dell’altro, per rispetto della sua libertà e come sollievo alla sua sofferenza, è quello che ho esposto poc’anzi: non è possibile garantire che la procedura sarà breve, serena e indolore”. E questo bisogna saperlo, “perché la libertà presuppone la conoscenza delle possibili conseguenze delle nostre azioni”.
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