Che il fenomeno delle babygang a Napoli sia diffuso e asfissiante lo dimostra il fatto che ci sono bambini di 9-12 anni così fieri delle proprie azioni delinquenziali da postare foto sui social in atteggiamento minaccioso e con in mano diverse armi. Ma se a livello mediatico il fenomeno è scoppiato solo dopo la pubblicazione di questi scatti, a Napoli il problema è vissuto nel quotidiano e rischia di portare buona parte delle nuove generazioni su una strada dalla quale è difficile uscire.
A parlare di questo problema sociale è Alessandro Gallo, figlio del boss camorrista Gennaro Gallo, il quale ha avuto la fortuna, il coraggio e la forza di volontà di staccarsi da un mondo che avrebbe potuto inghiottirlo facilmente. In una recente intervista rilasciata ad ‘Avvenire‘, Alessandro analizza il problema spiegando che non si sta facendo abbastanza per aiutare questi ragazzi: “Non basta la scuola, dobbiamo investire sulla famiglia. E invece non si fa. Possiamo portare in strada un esercito di insegnanti ma il problema sono ragazzi che non conoscono cosa sia l’eredità di un padre o di una madre, o ragazzi che si lasciano schiacciare dall’eredità dei padri e delle madri e nello stesso tempo non hanno nessun dialogo con le proprie famiglie. A Napoli l’agenzia più importante, la famiglia sta facendo acqua da tutte le parti”.
Quando gli viene chiesto il motivo dell’insorgere di questa criminalità infantile, Alessandro ricorda all’intervistatore che il fenomeno in questione non è una novità, ma che se ne sta parlando solo ora: “Abbiamo un po’ di memoria corta. Soprattutto nei quartieri di periferia i ragazzi hanno sempre usato un tipo di linguaggio e un tipo di modalità di azione bullesca o addirittura camorrista”. L’attore poi spiega che la soluzione non può essere cercata solo all’interno del sistema d’istruzione, ma che c’è bisogno della compartecipazione di tre attori principali: “Ci sono tre mondi che non dialogano più, cultura, scuola e famiglia. Bisogna discutere di genitorialità. Davanti a noi abbiamo una generazione di ragazzi liquidi, che ci scappano di mano. Come possiamo chiedere un aiuto solo alla scuola, se poi questi ragazzi rientrano in casa e trovano situazioni precarie da un punto di vista affettivo? Ragazzi che mancano di sentimenti e di emozioni che la scuola e la cultura non possono assolutamente colmare”.
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