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Gesù e quel modo molto provocatorio di parlare di felicità

Di Padre Gaetano Piccolo

Quando sant’Agostino scrive il suo libretto sulla felicità, immagina gli uomini come naviganti: tutti desiderano portare a compimento il viaggio della vita, ma non tutti hanno il coraggio di farlo. Alcuni si fermano a controllare ossessivamente la costa, senza prendere mai il largo, altri si lanciano in mare aperto con incoscienza e si perdono tra le onde, altri invece, tenendo fisso lo sguardo verso la meta, nonostante le tempeste, riescono a portare la propria barca, per quanto squassata, nel porto della desiderata quiete.

Agostino avrebbe ragione se solo sapessimo dove andare! La felicità infatti è una di quelle cose che perseguiamo di più pur capendo sempre meno cosa sia.

La felicità nel nostro tempo sembra quasi un atteggiamento compulsivo con il quale continuiamo a riempirci continuamente lo stomaco senza essere mai sazi. Alcuni immaginano la felicità come il momento in cui hanno finalmente il controllo sulla loro vita, la percezione della sicurezza: peccato però che la vita somigli più a una zattera che imbarca continuamente acqua! Per altri invece la felicità è sinonimo di mediocrità, un certo accontentarsi: meno desideri, più sei felice, una sorta di buddismo de no artri! E poi ci sono i mitici genitorispazzaneve che devono vigilare sulla felicità dei propri figli, rimuovendo ogni ostacolo al loro passaggio, in modo che non si scontrino mai neppure con una minima parvenza di sofferenza o di sacrificio, occorre preservarli, proprio come il principe Gautama dentro il palazzo imperiale prima dell’illuminazione: questi figli sono purtroppo destinati ad incontrare il buio della depressione nella loro vita adulta. E poi ci sono quelli che si recano periodicamente al mercato della felicità, dove si svendono pur di sentirsi amati almeno per un po’: per loro la felicità si compra perché sono convinti di non esserne degni.

Alcuni direbbero che i cristiani hanno risolto alla radice il problema, rinunciando ipocritamente alla felicità e proiettando questo umano desiderio in un ipotetico futuro immaginario. Avrebbe ragione Nietzsche nel dire che i cristiani sono dei codardi che si sono inventati la favola dell’umiltà solo per non ammettere che sono degli sconfitti, incapaci di affrontare la durezza della vita.

Ma forse il povero Nietzsche non si era mai accorto che la prima parola della prima lezione di Gesù nel Vangelo di Matteo riguarda proprio la felicità. Purtroppo, forse per pudore, gli stessi cristiani continuano a non usare questa parola, sostituendola con un termine che sembra più casto e non contaminato dai banali desideri umani: parlano di beatitudini!

Gesù invece usa volgarmente proprio la parola ‘felicità’. A dire il vero non usa la parola ‘eudaimonia’, che veniva usata invece dai filosofi, per esempio da Aristotele, secondo il quale per raggiungere la felicità devifare qualcosa. La felicità per Aristotele è un fine, uno scopo, che si raggiunge mettendo in atto altre azioni intermedie.

Provocatoriamente Gesù non usa questa parola, ma usa l’aggettivo ‘macharios’: come per dire che la sua idea di felicità non è quella di Aristotele. Per Gesù la felicità è un dono non una conquista, la felicità è prendere consapevolezza di ciò che sei. Gesù infatti non parla di felicità al futuro, ma usa il tempo presente: siete felici. Siete felici perché figli di una promessa. Quando i figli scoprono di essere eredi sono felici non solo perché avranno l’eredità, ma perché fin d’ora quella promessa di eredità vuol dire che sono riconosciuti come figli.

Gesù elenca una serie di situazioni paradossali nelle quali nessuno si riconoscerebbe felice. È un . Forse non a caso nel capitolo precedente, prima di iniziare la sua predicazione, aveva invitato i suoi ascoltatori a cambiare modo di pensare: metanoèite, cambiate pensiero…noi lo abbiamo tradotto, moralisticamente, con l’espressione ‘convertitevi!’.

Per Gesù è felice chi è povero, cioè chi è mendicante, chi non ha nulla a cui attaccarsi, perché impara a ricevere tutto dalla vita come dono. È felicechi è nel pianto perché ha imparato a riconoscere la propria fragilità, a non trattenere, a non difendersi dietro un’immagine eroica di sé, è libero di dire: “io sono questo”. Sono felici i miti, perché hanno rinunciato ad andare a caccia, a fare prede, a tenere l’altro in ostaggio. Sono felici quelli che ancora hanno fame e sete di giustizia perché tengono vivo un desiderio, sono collaboratori di Dio nel rimettere ordine nel mondo (che è il senso biblico della giustizia). Sono felici quelli che sentonomisericordia perché sanno spostare il cuore dal proprio io all’altro, hanno smesso di essere ripiegati su se stessi. Sono felici i puri di cuoreperché sanno cercare il bene in ogni cosa, senza vedere sempre il male, ma sforzandosi di capire cosa c’è dietro la storia dell’altro senza giudicarlo. Sono felici coloro che costruiscono la pace perché lavorano per riconciliare e non per alimentare conflitti. Sono felici coloro che sonoperseguitati perché accettano l’umiliazione anche quando avrebbero diritto a vedere riconosciuti i loro meriti.

Non parliamo più dunque di beatitudini, ma parliamo piuttosto del discorso di Gesù sulla felicità! E proviamo a sfidare noi stessi, chiedendoci se la nostra idea di felicità è simile a quella di Gesù. È la prima lezione, ma come in ogni corso che si rispetti, all’inizio si mettono le basi, altrimenti costruiamo sulla sabbia.

 

fonte:aleteia

Emanuele

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