Una «insolita forza, voglia di vivere». Così uno dei suoi assassini ha descritto il tratto saliente della personalità di padre Jerzy Popieluszko, il giovane cappellano polacco ammazzato brutalmente per silenziarne la sua voce profetica.
Parole che testimoniano quanto il sacerdote fosse, per dirla con G.K. Chesterton, un «uomo vivo», a differenza dei suoi killer, strumenti di morte del regime comunista.
Per ricostruire il clima in cui matura l’omicidio di padre Jerzy Popieluszko bisogna ricordare che nel 1984 da tempo il sacerdote è finito nel mirino del regime che lo sottopone a costanti e sfibranti interrogatori, lo minaccia di incarcerazione. Non si contano le intimidazioni anche ai danni di amici e sostenitori del sacerdote, sui media parte una campagna diffamatoria nei suoi confronti che lo addita come «nemico».
Ma padre Jerzy non si piega a minacce e intimidazioni. Così all’interno del regime comunista crescono impotenza e rabbia.
Un senso di frustrazione bene espresso da uno dei suoi assassini, Grzegorz Piotrowski, il più alto in grado del commando di killer, che confesserà anni dopo: «Tempo fa l’ho trattato come nemico. Non so perché… Non c’erano dei motivi che potessero suscitare in me verso di lui un atteggiamento ostile… che proveniva forse dall’impossibilità di dominare la situazione… che aveva superato quanto i miei capi si aspettavano e le mie stesse possibilità di operare. E dall’altro lato stava don Jerzy, una persona che non accettava compromessi, coraggioso, che proseguiva deciso per la sua strada, una volta tracciata».
Frustrazione che spinge ad adottare una «azione risoluta»: matura l’idea di ricorrere alla violenza e perfino all’eliminazione fisica per mettere a tacere la scomoda voce di padre Popieluszko.
Il primo attentato andato a vuoto
Già il 13 ottobre 1984 si tenta una prima azione, che però va a vuoto. Il giovane cappellano di Varsavia sta facendo rientro da Danzica, dove ha partecipato a un incontro. I funzionari dei servizi si appostano in un tratto buio e isolato del bosco, con l’obiettivo di far uscire di strada l’auto del sacerdote, che si salva solo grazie alla prontezza dell’amico e autista Waldemar Chrosrowski.
È solo il preludio dell’azione che metterà fine alla vita terrena di padre Jerzy. Il 19 ottobre celebra quella che sarà la sua ultima messa nella parrocchia dei Santi Martiri Polacchi a Bydgoszcz, circa trecento chilometri al Nord-Ovest di Varsavia. Il sacerdote decide di non tenere l’omelia della celebrazione (iniziata alle 18), ma di commentare successivamente la preghiera del Rosario, alla quale è molto legato.
L’ultima messa e il testamento spirituale
Una meditazione che è anche il suo testamento spirituale, un condensato delle decine di «omelie per la patria» tenute a Varsavia. Dopo aver citato la preghiera di Giovanni Paolo II alla Madonna di Częstochowa, il giovane sacerdote ricorda a tutti i presenti: «Può vincere il male solo chi è pieno di bene». Poi denuncia la politica anticattolica del regime comunista polacco e loda chi, come Solidarność, ha stupito il mondo «perché non ha lottato con la violenza, bensì in ginocchio, con il rosario in mano».
Popieluszko insiste su un punto nel suo ultimo discorso: non è sufficiente denunciare il male, scandalizzarsi, indignarsi. «Al cristiano non può bastare solo la condanna del male, della menzogna, della viltà, della violenza, dell’odio e dell’oppressione». No, il cristiano deve «egli stesso essere autentico testimone, portavoce e difensore della giustizia, del bene, della verità, della libertà e dell’amore».
La trappola dei carnefici
Dopo il rosario rientra subito perché la mattina successiva deve celebrare la messa in parrocchia. Verso le 21 la Volkswagen Golf verde di padre Jerzy si rimette in marcia per tornare a Varsavia. Alla guida c’è sempre il fidato amico Chrosrowski.
Quando sono a Górsk una Fiat 125 si avvicina lampeggiante, supera l’auto del sacerdote. A bordo c’è un passeggero in divisa che agita una luce rossa intimando all’autista di fermarsi. I due amici credono che sia un controllo della polizia. Ma a bordo non ci sono poliziotti bensì funzionari del ministero degli Interni, dipartimento IV, ufficio «Attività illegali della Chiesa cattolica». A guidarli è il già citato Grzegorz Piotrowski.
È un agguato in piena regola. Quando l’amico di padre Popieluszko se ne accorge sente gridare: «Cosa mi fate?». Per un attimo scorge padre Jerzy in mezzo alla strada, con due uomini impegnati a tirarlo per le maniche della tonaca verso l’auto, dalla parte del bagagliaio. Poi sente un rumore strano, duro e sordo, come quello di un sacco di farina preso a bastonate. E si rende conto che stanno percuotendo il sacerdote.
Calma e forza che impressionano gli assassini
Un membro del commando assassino racconterà di essere rimasto impressionato dalla calma di Popieluszko, mai aggressivo. Il sacerdote cerca la fuga nel bosco, ma viene inseguito e raggiunto. Per fermarlo lo prendono più volte e bastonate fino a stordirlo.
Gli assassini lo trascinano svenuto fino alla macchina, lo chiudono nel bagagliaio e partono a gran velocità. Dopo qualche chilometro la Fiat 125 ha un guasto al motore e deve accostare. Don Jerzy riesce a forzare il cofano del bagagliaio e fugge. Ma gli aguzzini lo riprendono di nuovo. E sono ancora bastonate e pugni. Piotrowski anni dopo osserverà che il tratto più caratteristico del comportamento del sacerdote, in quella circostanza, «quello che si è impresso di più nella mia memoria è questo: una insolita forza, voglia di vivere».
Il cappellano lotta per liberarsi dai suoi carnefici, ma alla fine viene sopraffatto dalla canaglia. Nuovamente svenuto e sanguinante, viene legato e imbavagliato. Dopodiché lo chiudono ancora una volta nel bagagliaio.
Un pestaggio violentissimo
A una stazione di servizio il sacerdote cerca ancora di aprire il cofano. I carnefici allora imboccano un sentiero laterale, aprono il bagagliaio e lo randellano senza pietà fino a stordirlo ancora.
Più avanti lo legano in maniera che non possa più muoversi: lo “incaprettano” con la corda stretta attorno al collo e ai piedi, così da rischiare di strangolarsi coi suoi stessi movimenti. Infine completano l’opera ficcandogli uno straccio in gola e imbavagliandolo con un cerotto.
L’auto prosegue per un po’ finché i carnefici non si accorgono che è finita: don Jerzy Popieluszko è morto. O almeno così sono convinti. Comunque sia, gli legano ai piedi un sacco pieno di pietre e lo gettano nel fiume da quindici metri di altezza. L’autopsia sul cadavere del sacerdote non sarà in grado di stabilire se fosse già morto quando i suoi carnefici lo hanno buttato nel fiume.
Il corpo martoriato ripescato nella Vistola
La sera del 30 ottobre 1984 arriva l’annuncio in tv: il corpo del sacerdote è stato ritrovato nel bacino della Vistola, vicino alla diga di Włocławek. La lunga permanenza in acqua lo ha reso praticamente irriconoscibile, già devastato dai segni delle percosse e del soffocamento. Il corpo è pieno di lividi, con le mani coperte di ferite come se avesse cercato di proteggersi la testa dai colpi dei carnefici. La bocca appare maciullata: gli assassini gli hanno anche strappato il cuoio cappelluto attorno alla fronte. Sul collo il segno violaceo della corda con la quale lo hanno legato al sacco di pietre prima di gettarlo nelle acque della Vistola.
Primo sacerdote martirizzato in Polonia dopo nove secoli
Impossibile descrivere la profonda emozione che sconvolge il Paese in quella circostanza. Quando si era diffusa la voce del rapimento – grazie all’amico autista riuscito rocambolescamente a scappare – nessuno in Polonia credeva seriamente che potessero uccidere padre Popieluszko. Era da nove secoli che il sangue di un prete non bagnava il suolo polacco. Bisognava risalire all’anno 1079 per trovare un precedente, quando il re Boleslao aveva trucidato il vescovo di Cracovia, Stanislao Szczepanowski, poi fatto santo.
Gli assassini avevano superato una linea già altre volte, tantissime, oltrepassata dai comunisti. Credevano di aver vinto. Ma non sapevano che quel prete timido e schivo, trasformato in un leone coraggioso dalla forza dello Spirito Santo, sarebbe stato celebrato in funerali degni di un re. Così la gloria del suo martirio finirà per travolgere quel regime fatto di menzogne e oppressione.