In questi giorni, con la chiusura delle scuole e il ritorno della dad, molte famiglie si sono trovate di nuovo in un contesto di difficoltà. Ci si chiede come superarla.
La tristezza nel vedere i propri figli non potere giocare all’aperto, spesso la fa da padrona rispetto alla possibilità di passare più tempo con loro, che magari nella normalità quotidiana, fatta di lavoro e scuola, non sarebbe stato possibile. Questo perché non tutto è, di certo, rose e fiori.
La differenza di questa zona rossa, rispetto alle precedenti dell’anno scorso, è che le scuole sono chiuse ma le aziende, gli uffici e tutto il resto no. In zona rossa, stavolta, si lavora. Non si è fermata tutta la società, insomma, ma si sono fermate solamente le scuole, fonte di grave contagio per la difficoltà, ovvia, di non riuscire a fare rispettare le norme ai bambini che, per natura, hanno bisogno di muoversi, di giocare, di essere vivi e in movimento. I bambini non sono fatti per stare fermi, a differenza di quello che vorrebbe il virus, o meglio gli scienziati che hanno redatto le norme di sicurezza anti-contagio.
In questo contesto, non è certamente facile per le famiglie coniugare il lavoro con i figli a casa. Molti, infatti, sono stati in qualche modo costretti ad abbandonare il proprio posto, in modo particolare le donne. Allora capita che lo scoramento è forte, e ci si chiede perché la politica, in questo momento di emergenza, che in questa seconda ondata non era più affatto imprevedibile, non abbia messo in campo alcuna misura precauzionale?
Questo genere di problematiche era ovvio che arrivassero. Possibile che centinaia di tecnici del comitato tecnico scientifico in un anno non siano riusciti a formulare nemmeno una proposta per ovviare, o quantomeno affrontare, questo drammatico problema, che coinvolge milioni di famiglie, la gran parte cioè delle famiglie italiane?
Molti genitori, anche in smart-working, si trovano costretti ad abbandonare per ore i propri figli davanti alla tv, mentre loro portano avanti il proprio lavoro. Ma non è così che si cresce un figlio. Un bambino, o una bambina, hanno bisogno di fiorire, non di essere sedati o anestetizzati da uno schermo, da un tablet o da un videogioco.
Ogni minimo dettaglio della loro esperienza quotidiana ha un impatto enorme su chi saranno nel futuro, su come penseranno e su come guarderanno al mondo. In questo anno di pandemia, gli adolescenti sono stati davvero l’ultimo problema della politica. E nei prossimi anni, qualora la pandemia continuasse, che ne vogliamo fare di loro?
I giovani hanno diritto ad essere giovani, i bimbi hanno diritto a essere bimbi. Una situazione così drammatica come quella della pandemia, per loro lo è il doppio. Hanno diritto a crescere sani, ad avere le loro esperienze di vita, a scambiare socialità con i loro coetanei, a conoscere gli altri e a conoscere sé stessi.
Il vero rischio è che quando diventeranno adulti, i ragazzi si porteranno un vuoto dentro che rischierà di essersi formato proprio in questo tempo di oblio, in cui hanno imparato sì ad ascoltare il silenzio. Ma allo stesso tempo, si sono visti annullati nella loro identità. Tutto ciò accadrà se non si troverà una strategia per affrontare la difficoltà. Purtroppo, bisognerà anche prenderne atto: non sarà di certo la politica a tirare fuori la soluzione.
Per questo c’è fortemente bisogno di educare i giovani ad affrontare questo tempo difficile. Conoscere sé stessi, la propria intimità. Leggere, scavare nel profondo, non anestetizzarsi a ciò che il mondo ormai sembra domandare a tutti. Ma al contrario, trovare una propria strada, la strada alternativa a quella già percorsa da tutti, la strada che porta cioè dritti fino al proprio cuore.
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Dobbiamo insegnare ai giovani a fare tesoro di questi momenti di solitudine, di “vuoto”, di dimenticanza, affinché quel vuoto possa essere davvero colmato di momenti di “pienezza”. Non tanto di cose da fare, come andare a scuola o vedere i compagni. Ma di pienezza di vita, quella che il Signore Gesù ci indica fin dal giorno in cui ci è stata donata la vita.
La pienezza che ci fa riconoscere figli amati senza avere bisogno di nulla che ce lo confermi, se non un rapporto intimo e particolare con il Nostro Signore. Per cui, l’unica cosa di cui si ha bisogno è di alzare gli occhi al cielo, per riporli fino in fondo al nostro cuore. Facciamo in modo che i nostri ragazzi non perdano questi giorni importanti, ma al contrario facciano esperienza di sé stessi. Solo così potranno trarre il buono da una situazione così drammatica.
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Solo da questa rinnovata consapevolezza, forse, sarà possibile sconfiggere l’inverno demografico che sta uccidendo il nostro Paese, per tornare a sentire, domani, quando la pandemia sarà passata, di nuovo le voci dei bambini, degli adolescenti e dei ragazzi che gridano per le strade, mostrando a tutti cosa significa essere davvero felici. E indicando quella strada che, purtroppo, è il resto della società, quella degli adulti, ad avere smarrito da tempo.
Giovanni Bernardi
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