L’HIJAB è un velo (non trasparente come lo intenderemo noi), che copre la testa, il collo e le orecchie, ma lascia scoperto volto e spalle. Considerato dai musulmani un simbolo di religiosità e femminilità, si indossa in diversi colori. In effetti “hijab” significa “celare allo sguardo, nascondere” e indica sempre un modo per isolare un oggetto o una persona.
Il KHIMAR copre dalla testa in giù, fino ai fianchi o anche fino alle caviglie. Lascia scoperti gli occhi e il volto, anche esso è usato in diversi colori.
Il NIQAB è il velo integrale (anch’esso non trasparente), che copre il volto e il corpo, lasciando una fessura per gli occhi appena, ed è sempre nero.
Lo CHADOR, anch’esso solo nero, copre dalla testa in giù, lascia scoperti volto e occhi; è tipicamente iracheno.
Il BURQA copre dalla testa in giù e, all’altezza degli occhi, ha un’apertura con retina; è tipicamente afghano, blu o nero.
Questo è l’abbigliamento, senza possibilità di variante, di molte donne della religione islamica. La scelta dell’abito, più che dalla religione, dipende dalla cultura di quei popoli. Infatti, precisiamo che, in alcune Nazioni musulmane occidentali, come la Turchia, le donne possono decidere liberamente se utilizzare quel tipo di vestiario oppure no (a meno che non appartengano ad una famiglia estremista).
In altri Pesi, invece, è una seria e severa imposizione, che nasconde la donna e la sua fisicità al resto del mondo.
Qualcosa di incomprensibile a noi occidentali o di altra provenienza culturale, poiché richiama subito alla mente un abuso, attuato sulle donne, mentre il male e l’impudicizia sembrano essere negli occhi di chi le guarda, come a sottolineare che la donna è veicolo di una tentazione continua, a cui l’uomo non è tenuto a resistere, se non nascondendola ai propri occhi.
Ci sarebbe troppo da dire in merito a queste basilari riflessioni, ma, per ora, ci basti sapere e ribadire che, lo scorso Marzo, la Corte di Strasburgo per i Diritti Umani ha permesso il divieto, in Belgio, del Niqab.
Per i giudici, la proibizione “può essere considerata proporzionata con il fine di garantire la convivenza e la socialità” e per “i diritti e le libertà delle donne”, “necessari in una società democratica”.
Un caso simile si era verificato anche in Francia, con una cittadina belga, Samia Belcacemi di 36 anni, e una marocchina, Yamina Oussar di 44 anni (e non sono state le uniche), multate per evitare l’arresto, in quanto si ostinavano a coprirsi il volto, celando la propria identità.
In seguito a sentenze come queste, molte donne musulmane hanno deciso di non uscire più di casa. Allora ci si chiede: Cosa spinge queste donne ad autolimitarsi in questo modo e come sarà possibile per la Corte dei Diritti Umani difendere chi non desidera essere tutelato e reso libero dalla schiavitù, antica e moderna, di una cultura maschilista e antiquata (per non dire altro)?
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