Il duro appello del Papa contro lo sfruttamento sul lavoro in un settore che, al contrario, dovrebbe solo generare bellezza.
“No al lavoro schiavo, la cultura non si pieghi al dio mercato”. Questo il messaggio lanciato dal Pontefice rispondendo allo scrittore Maurizio Maggiani, che nei giorni scorsi sul quotidiano Secolo XIX aveva a lui indirizzato una lettera aperta in cui si raccontava della “vergogna” del metodo criminale, ai danni degli immigrati, con cui venivano stampati suoi libri.
Il romanziere infatti si è detto disgustato dalla noncuranza generale rispetto alle situazioni disumane che soggiacciono, ad esempio, dietro la filiera anche di alcune pubblicazioni editoriali. “Val la pena di produrre belle e sagge opere se per farlo abbiamo bisogno del lavoro degli schiavi?”, è la domanda che risuona in questa lettera.
Il Papa ha risposto allo scrittore ligure con una lettera datata 9 agosto, giorno in cui la Chiesa celebra Edith Stein, Santa Teresa Benedetta della Croce, compatrona d’Europa. Maggiani ha condiviso il suo sdegno e la sua vergogna provata quando ha scoperto che anche la realizzazione dei libri suoi e di altri autori, che passava attraverso un’azienda veneta e lo stabilimento subappaltatore in Trentino, avveniva attraverso metodi criminali ai danni di operai pakistani, letteralmente brutalizzati.
Tutto ciò, “fino all’indicibile”, spiega Maggiani, che si definisce “non credente” ma che afferma di conoscere “la prorompente forza profetica” di Cristo. “Non ho mai avuto il dono, la grazia, di pazientare per tre giorni al suo sepolcro, aspettare con Maria di Magdala e constatare la resurrezione del figlio di Dio”, spiega, aggiungendo però che questo non gli ha impedito di rivolgersi al Santo Padre.
“Le storie che mi piace raccontare e che sento il dovere di farlo sono le storie dei silenti, degli ultimi e degli umili”, spiega, anche se l’indifferenza alla sua domanda è stata generale, “come fosse una domanda oziosa”. Così ha deciso di rivolgersi a “Sua Santità, perché con tutto il mio cercare non riesco a vedere nessuna altra autorità morale che oltre ad avere alta voce è disponibile ad ascoltare, a chiedersi prima di giudicare”.
Insomma, la domanda sulle sofferenze di quegli uomini e quelle donne sfruttate è pesante, e chiede risposta. “Ho provato vergogna di me, di me che sto così attento a tenermi le mani pulite e non servirmi di prodotti in sospetto di sfruttamento schiavistico, eppure non ho mai riflettuto sull’evidenza che il mio lavoro di romanziere, così nobile”, è “parte di una catena del sistema produttivo, quella che pudicamente chiamiamo filiera, non dissimile da ogni altra, e dunque passibile delle stesse aberrazioni”, spiega ancora lo scrittore.
In queste parole, e in questa vicenda, il Papa vi ha rivisto uno dei punti chiave del suo stesso Magistero. “Lei non pone una domanda oziosa, perché in gioco c’è la dignità delle persone, quella dignità che oggi viene troppo spesso e facilmente calpestata con il ‘lavoro schiavo’, nel silenzio complice e assordante di molti. Lo avevamo visto durante il lockdown, quando tanti di noi hanno scoperto che dietro il cibo che continuava ad arrivare sulle nostre tavole c’erano centinaia di migliaia di braccianti privi di diritti: invisibili e ultimi – benché primi! – gradini di una filiera che per procurare cibo privava molti del pane di un lavoro degno”.
Il Papa ha poi riconosciuto che associare questo tipo di sfruttamento alla letteratura è ancora più grave. “Forse forse ancora più stridente”, se il “pane delle anime, espressione che eleva lo spirito umano”, fa in modo che la stessa anima umana venga “ferita dalla voracità di uno sfruttamento che agisce nell’ombra, cancellando volti e nomi”. Pubblicare ciò che poggia su una ingiustizia è ingiusto, spiega il Papa. “Per un cristiano ogni forma di sfruttamento è peccato”.
Ci si chiede perciò quale sia la soluzione, diretta e immediata, a questo male. Non di certo, arrendersi. “Rinunciare alla bellezza sarebbe una ritirata a sua volta ingiusta, un’omissione di bene”, spiega il Papa citando due verbi: “denunciare” e “rinunciare”. “Denunciare” i “meccanismi di morte”, le “strutture di peccato”, scrivere “cose anche scomode per scuotere dall’indifferenza, per stimolare le coscienze, inquietandole perché non si lascino anestetizzare dal non mi interessa, non è affare mio, cosa ci posso fare se il mondo va cosi?”.
Poi, rinunciare “non alla letteratura e alla cultura ma ad abitudini e vantaggi che, oggi dove tutto è collegato, scopriamo, per i meccanismi perversi dello sfruttamento, danneggiare la dignità di nostri fratelli e sorelle. È un segno potente rinunciare a posizioni e comodità per fare spazio a chi non ha spazio”. In sostanza, riuscire a “dire un no per un sì più grande”, a fare “obiezione di coscienza per promuovere la dignità umana”.
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Così, l’esempio che il Papa porta, traendolo dalla lettera di Maggiani, è quello dello scrittore russo Dostoevskij. “Non solo per la sua lettura profonda dell’animo umano e per il suo senso religioso, ma perché scelse dì raccontare vite povere, ‘umiliate e offese’”. Perciò l’invito: davanti ai tanti umiliati di oggi, che troppo spesso nessuno rende “protagonisti, mentre soldi e interessi spadroneggiano”, la cultura “non si lasci soggiogare dal mercato”.
Giovanni Bernardi
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