Nelle prove e nelle sofferenze insieme a Gesù: la giovane regista Anna Raisa Favale fa una preziosa scoperta che è segno di luce e speranza.
Nella vita di ognuno ci sono periodi di deserto. Possono essere brevi o lunghi, avere intensità diverse, ma il dolore è qualcosa che ogni essere umano conosce e sperimenta. Tra i modi di affrontarlo c’è quello accompagnato e illuminato dalla fede, e un libro di recente pubblicazione lo racconta.
Si tratta di Pagine dal deserto, edito da Berica Editrice all’interno della collana UomoVivo. L’autrice è Anna Raisa Favale, regista e sceneggiatrice. Ha lavorato in media cattolici a New York e in Europa, svolto missioni in Africa, Messico e territorio Israelo -palestinese, e operato in ambito teatrale in contesti difficili come centri di igiene mentale, carceri e campi profughi.
La abbiamo intervistata per sapere di più di questo suo racconto introspettivo in cui ognuno può ritrovare facilmente sentimenti ed emozioni vissute.
La nascita di un libro fuori dai piani
Anna Raisa, come è nata l’idea di esternare le tue dinamiche interiori e raccontare agli altri del tuo deserto?
Questo libro non era nei miei piani. Con grande sorpresa, lo scorso maggio, sono stata contattata per scrivere un libro di testimonianza per la collana Uomo Vivo di Berica Editrice.
Ho sentito Dio chiedermi, attraverso questa richiesta, di dare testimonianza. Di farlo per la Sua gloria, e aiutare me per prima, e magari qualcun altro, ad attraversare momenti spirituali di difficoltà a cui, in questo caso, ho dato il nome di “Deserto”.
Come dico sempre, il protagonista di questo libro non sono io, ma è Dio. La mia storia personale è solo un pretesto per parlare di Lui, e della sua azione nella nostra vita, anche quando sembra senza senso e dolorosissima.
Il ruolo di Maria a Medjugorje
Il racconto della tua crescita nella fede e della trasformazione che Dio ha operato nel tuo cuore pensi possa interrogare e arrivare anche a chi non è credente?
Sicuramente in questo viaggio Dio è centrale – perché è centrale per me stessa – e un non credente potrebbe non comprendere fino in fondo alcune parole. Tuttavia, non credo che bisogni necessariamente essere credenti per entrare nel viaggio emotivo e spirituale di un una donna di fede, così come non si deve aver ucciso qualcuno per ascoltare un omicida, o essere necessariamente madri per comprendere le sfide di una madre, e così via.
La LucediMaria ha un legame speciale con Medjugorie: cosa rappresenta per te questo posto in cui la presenza della Madre è così forte, anche alla luce dell’esperienza che hai fatto in quel luogo e che racconti nel libro?
Medjugorje è stato per me un luogo sempre molto speciale, ci sono andata per la prima volta a 22 anni, e poi ci sono tornata in momenti salienti della vita.
È per me “la casa terrena” della mamma, dove andare fisicamente quando ogni altro luogo nel mondo sembra non darmi il conforto che a volte il mio cuore cerca. A partire dall’episodio che racconto nel libro, però, Medjugorje ha assunto un ruolo ancora più forte e importante. È il luogo dove Dio mi ha parlato in modo chiarissimo e forte, dandomi conferma di alcune dinamiche della mia vita, e innescando un profondissimo processo di guarigione che poi in questi mesi passati si è compiuto.
Il Rosario e quel legame intimo con la Madre
Si può dire che la tua fede ha una grande impronta mariana. Maria e la preghiera del rosario è molto importante per te: cosa ti dona?
Il Rosario l’ho scoperto a 18 anni, come racconto nel libro. Dopo anni di preghiera, posso dire che è stato davvero l’anello mancante del mio rapporto con Gesù. Tutto quello che sapevo di Gesù, attraverso la “conoscenza” con sua madre, che avviene profondamente attraverso il Rosario, è come se si fosse espanso, moltiplicato.
L’accesso alla vicinanza con Gesù che si conquista, attraverso Maria, è una sorta di livello che si sdogana solo attraverso di Lei, la mamma. E’ come se il Rosario fosse il modo in cui entriamo in intimità con Maria, la conosciamo personalmente, iniziamo a percepire la sua presenza, scopriamo veramente di avere una madre, e poi, attraverso questo legame, entriamo in una intimità ancora più speciale con Gesù, come se solo Sua madre potesse svelarci fino in fondo alcune cose di Suo figlio che conosce solo Lei.
Il Rosario, inoltre, per me è comunità. Dopo aver iniziato a recitarlo nel silenzio e nell’intimità della mia stanza, i primi anni di Università, è diventato la preghiera privilegiata dei miei gruppi di preghiera, attraverso i quali abbiamo visto piccoli, grandi miracoli avvenire.
La grande conquista del Deserto
Viene da dire che proprio nel deserto hai compreso qual è la chiave per la felicità, che analizzi in modo approfondito al di là del concetto con cui comunemente viene intesa. Ci può essere felicità anche se c’è sofferenza: come avviene questo?
La felicità nella sofferenza è una delle più grandi conquiste del Deserto, uno dei suoi più grandi doni.
La felicità che noi pensiamo di ricercare a volte o di desiderare, è una felicità legata al “realizzare” alcune cose. Pensiamo di essere felici quando “avremo trovato una persona da sposare”, oppure “avremo dei figli”, oppure “avremo stabilità economica”, eccetera. Il problema è che la felicità (e conseguentemente la libertà) che vuole offrici nostro Padre Dio, non ha niente a che fare con tutto questo. Deriva dal riscoprirsi figli amatissimi e preziosi, che viene dal sapere di essere figli del Re dell’universo e di camminargli accanto. Proviene dall’abbandono, dall’amore dal padre e per il padre completamente gratuito e disinteressato.
Quando arriviamo a capire, nel sangue e nella carne, questa cosa fondamentale, allora la nostra idea di felicità si converte del tutto, e il dolore non viene vissuto con infelicità, ma con abbandono, e sapendo due cose: una, che Dio è vicinissimo nel nostro dolore. E due, che Dio sa quanto e cosa permettere, per cui non permetterà mai troppo.
La felicità dobbiamo arrivare a concepirla come lo stare semplicemente con Dio, ogni minuto della nostra giornata, per ogni cosa che succede, liberandoci da ansie e da paure, da aspettative e da realizzazioni. Allora si conquista un altro modo di vedere e di stare al mondo.
Come si alimenta il rapporto intimo col Signore
Il tuo libro trasmette chiaramente che la fede non è un placebo, ma se è vera e viva è un rapporto con il Signore. Cosa auguri ai tuoi lettori per alimentarlo nelle diverse fasi della loro vita in cui si accingono al tuo racconto?
Credo che il rapporto col Signore si alimenti esattamente nello “stare” con Lui. La mia esperienza di preghiera negli anni, e poi nel convento per alcuni mesi, come racconto nel libro, mi ha dimostrato che non c’è cosa che Dio non possa guarire e trasformare, alla Sua presenza.
Ma per fare questo abbiamo bisogno di ritagliare spazi e tempi per stare con Lui. Di chiudere il mondo fuori e stare solo con Lui, di prenderci del tempo, di riscoprire il silenzio. Auguro il silenzio, a chi vuole coltivare un rapporto con Dio padre. In particolar modo di fronte all’Eucaristia in Chiesa, se riusciamo.
Al di fuori di questo, l’esperienza di comunità nelle parrocchie, se si sente troppo difficile fare un cammino da solo, può aiutare moltissimo. E infine, dedicare del tempo alla missione, allo stare con i poveri e con i bisognosi, è un altro luogo in cui io ho visto lo Spirito Santo all’opera in modo evidentissimo. Dio ci chiama, continuamente e senza fermarsi. Il Suo, è un grido d’amore bellissimo per noi. Lui è già lì, e ci aspetta. Sta a noi, ora, fare un passo verso di Lui.