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La misericordia “tocca” le ferite di chi soffre

La Chiesa e ogni cristiano abbiano per le ferite del mondo la compassione del buon samaritano, perché il prendersi cura di chi soffre migliora i rapporti sociali e argina la cultura dello scarto. È il pensiero di sintesi dell’ottava meditazione tenuta da padre Ermes Ronchi a Papa Francesco e alla Curia Romana, giunti al quinto giorno degli esercizi spirituali ad Ariccia. Il servizio di Alessandro De Carolis:

È l’alba della domenica e tre giorni sono trascorsi in un immenso senso di vuoto e molte lacrime. Anche la donna che si avvicina al sepolcro ne ha il volto rigato e la vista della pietra rotolata via aumenta l’angoscia. La ferma una voce: “Donna chi cerchi? Perché piangi?”. Padre Ermes Ronchi parte da questa scena per descrivere il comportamento di Dio verso il dolore dell’uomo.

I tre verbi della compassione
Gesù è risorto, osserva il predicatore, “è il Dio della vita” e si “interessa delle lacrime” della Maddalena. “Nell’ultima ora del venerdì, sulla Croce si era occupato del dolore e dell’angoscia di un ladro, nella prima ora della Pasqua si occupa del dolore e dell’amore di Maria”. Perché, sottolinea padre Ronchi, è questo lo stile di “Gesù, l’uomo degli incontri”: non “cerca mai il peccato di una persona, ma si posa sempre sulla sofferenza e sul bisogno”. E allora, si chiede il religioso, “come fare per vedere, capire, toccare e lasciarsi toccare dalle lacrime” degli altri?:

“Imparando lo sguardo e i gesti di Gesù, che sono quelli del buon samaritano: vedere, fermarsi, toccare, tre verbi da non dimenticare mai (…) Vedere: il samaritano vide ed ebbe compassione. Vide le ferite di quell’uomo, e si sentì ferire (…) La fame ha un perché, i migranti hanno dietro montagne di perché, i tumori della terra dei fuochi hanno un perché. Interrogarsi sulle cause è da discepoli. Essere presenza là dove si piange (…) e poi cercare insieme come giungere alle radici del male e strapparle”.

Non “passare oltre”
In molte scene del Vangelo Gesù vede il dolore umano e prova compassione. Questo vocabolo, dice padre Ronchi, nel testo greco si traduce con sentire “un crampo al ventre”. La vera compassione dunque non è un pensiero astratto e nobile ma un morso fisico. Quello che induce il buon samaritano a non “passare oltre” come fanno il sacerdote e il levita. Anche perché, chiosa padre Ronchi, “oltre non c’è niente, tantomeno Dio”:

“La vera differenza non è tra cristiani, mussulmani o ebrei, la vera differenza non è tra chi crede o chi dice di non credere. La vera difefrenza è tra chi si ferma e chi non si ferma davanti alle ferite, tra chi si ferma e chi tira dritto (…) Se io ho passato un’ora soltanto ad addossarmi il dolore di una persona, lo conosco di più, sono più sapiente di chi ha letto tutti i libri. Sono sapiente della vita”.

La misericordia non è mai a “distanza”
Terzo verbo: toccare. “Ogni volta che Gesù si commuove, tocca”, ricorda il predicatore degli esercizi. “Tocca l’intoccabile”, un lebbroso, il primo degli scarti umani. Tocca il figlio della vedova di Nain e “viola la legge, fa ciò che non si può: prende il ragazzo morto, lo rialza e lo ridà a sua madre”:

“Lo sguardo senza cuore produce buio, e poi innesca un’operazione ancor più devastante: rischia di trasformare gli invisibili in colpevoli, di trasformare le vittime – i profughi, i migranti, i poveri – in colpevoli e in causa di problemi (…) E se vedo, mi fermo e tocco. Se asciugo una lacrima, io lo so, non cambio il mondo, non cambio le strutture dell’iniquità, ma ho inoculato l’idea che la fame non è invincibile, che le lacrime degli altri hanno dei diritti su ciascuno e su di me, che io non abbandono alla deriva chi ha bisogno, che tu non sei gettato via, che la condivisione è la forma più propria dell’umano. (…) Perché la misericordia è tutto ciò che è essenziale alla vita dell’uomo. La misericordia è un fatto di grembo e di mani. E Dio perdona così: non con un documento, con le mani, un tocco, una carezza”.

fonte: radiovaticana

Emanuele

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