Si parla tantissimo dell’inserimento delle donne nel mondo del lavoro, che dovrebbe offrire pari opportunità ad entrambi i sessi, ma, quando, poi, c’è l’occasione di sostenere una donna, che, oltre alla carriera, vorrebbe anche avere una vita di coppia e diventare mamma, nessuna legge, nemmeno la può aggiornata, sempre comprenderne le esigente.
Probabilmente questo accade perché le leggi vengono rispettate, solo se poste in vigore da gente che ne condivide il senso.
La Legge di Bilancio del 2018 parla, in due punti, della tutela della maternità per le avvocate, ma all’avvocato Cristina Bibolotti, non è stata affatto di aiuto.
Lei, donna di legge, si era rivolta al Tribunale di Livorno, esibendo un certificato medico, che parlava di una sua gravidanza a rischio, per la quale chiedeva il rinvio di una causa di cui si stava occupando: “Scegliere tra la salute propria e del feto e l’esercizio cosciente della professione è quanto di più doloroso possa esserci”.
Il giudice, che avrebbe dovuto comprenderla e tutelarla, nel suo ruolo di futura mamma-avvocato, non ha considerato che Cristina è alla 17esima settimana di gravidanza, che già al terzo mese ha avuto minacce di aborto, che per questo è stata ricoverata in ospedale più volete, che aveva avuto una prognosi di 30 giorni che le chiedeva di rimanere a riposo, per non mettere in pericolo il feto, e non gli ha permesso di rimandare l’udienza, in cui non poteva essere sostituita.
Ora la denuncia di Cristina, appoggiata dal Presidente del Consiglio dell’ordine di Pisa, fa appello al Presidente del Consiglio Nazionale Forense Andrea Mascherin, perché faccia luce sulla questione.
Per come si sono svolti i fatti, pare che la gravidanza della signora Cristina sia stata trattata come un malessere. Ecco le parole di Mascherin: “Per come viene riferito dalla collega interessata, appare un episodio assolutamente sconcertante e lesivo dei principi fondamentali di tutela della maternità, del nascituro e del principio di eguaglianza all’interno della legislazione. Come Cnf abbiamo già chiesto all’interessata un’ulteriore, completa, analitica relazione e provvederemo ad interessare il Ministero della Giustizia e il Csm”.
Per il momento, il giudice a cui Cristina aveva chiesto “clemenza” ha ritenuto la sua richiesta inammissibile, pensando che, se il rischio fosse stato reale, l’avvocato si sarebbe fatta sostituire. Il giudice non ha considerato che questo sarebbe stato meno professionale e avrebbe comportato un onere lavorativo impensabile, per qualunque altro avvocato che non conoscesse quella causa, e un disagio per il cliente che si sarebbe visto arrivare, al momento culminante del processo, un avvocato diverso dal suo: “Oltre che rendere la professione ancor più incompatibile con il ruolo di madre … l’assoluta indifferenza di parte della magistratura verso le legittime e documentate esigenze dell’avvocatura che, nuovamente, pare debba supinamente sottomettersi alle censurabili valutazioni del tribunale”, conclude Cristina.
Antonella Sanicanti